Armi e petrolio: i legami dell’Italia con Israele

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(Questo articolo è stato pubblicato il 18 settembre 2024)

Che l’Italia commerci regolarmente con Israele non è un segreto, mentre, nell’ultimo anno, molti sono i Paesi che hanno deciso di ridurre i loro rapporti con “l’alleato mediorientale” a causa del genocidio in atto sui territori palestinesi. Giovedì 12 settembre, al Senato, si è discussa l’interrogazione sull’esportazione di armamenti verso Israele e sulla licenza di sfruttamento di giacimenti di gas al largo delle coste di Gaza assegnata a Eni. Durante l’incontro, la senatrice Anna Bilotti (5 Stelle) ha chiesto che sia sospeso il commercio di armi come richiesto dal Consiglio generale dell’Onu, e sia considerata illegale l’esplorazione legata alle risorse energetiche in acque palestinesi.

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La senatrice ha inoltre ricordato la posizione della Corte internazionale di giustizia, che ha dichiarato illegale l’occupazione dei territori fuori dai confini degli accordi di Oslo. Al contrario del Regno Unito, che ha sospeso parte delle trecentocinquanta licenze di esportazione di componenti per armamenti verso Israele (principalmente relative a forniture per velivoli militari), l’Italia non ha limitato la vendita di materiale bellico al Paese mediorientale, anzi.

Da sempre, e ancor di più dall’inizio della guerra a Gaza, Israele dipende fortemente dalle importazioni di armi per sostenere le continue operazioni dell’esercito. La principale fonte di approvvigionamento è chiaramente rappresentata dagli Stati Uniti, che forniscono il 68% degli ordigni utilizzati dalle Forze di difesa israeliane. Ogni anno il governo israeliano spende 3,5 miliardi di euro in armi statunitensi, di cui una parte significativa è dedicata alla difesa missilistica, come previsto nell’accordo firmato tra i due Paesi nel 2016. In seguito all’attacco del 7 ottobre 2023, il parlamento americano ha approvato un ulteriore pacchetto di aiuti militari, che ammonta a quasi 13 miliardi di euro.

Al secondo posto, tra i fornitori di armamenti a Israele, si colloca la Germania, con un volume di scambi che è cresciuto fino a valere circa trecento milioni di euro l’anno. L’Italia, pur contribuendo a meno dell’1% del rifornimento militare verso Tel Aviv, occupa il terzo posto. Artiglieria navale, elicotteri e diversi tipi di munizioni: secondo i dati Istat di maggio, dopo il 7 ottobre 2023, il nostro Paese ha mandato a Israele armi per un valore totale di 4,6 milioni di euro. Un’inchiesta di “Altreconomia”, pubblicata a fine maggio, ha rivelato dati dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli sull’esportazione di armi e munizioni da guerra verso Israele (e non per uso civile) per un valore di due milioni di euro solo nei mesi di dicembre 2023 e gennaio 2024. Bombe, granate, missili e proiettili hanno registrato un aumento consistente, passando da 730.869 euro a dicembre 2023 a 1.352.675 euro a gennaio 2024. Munizioni che possono essere state usate in alcuni dei più sanguinosi attacchi a Gaza, costati in totale oltre quarantamila morti palestinesi, di cui il 70% donne, bambine e bambini. Senza contare le persone uccise in Cisgiordania.

“L’esportazione di armi a Israele da parte di Paesi europei è un fatto estremamente rilevante dinanzi alla Corte penale internazionale così come alla Corte internazionale di giustizia”, ha detto Triestino Mariniello, giurista, parte dell’equipe legale delle vittime di Gaza di fronte alla Corte penale internazionale. “I giudici, a gennaio e a marzo di quest’anno, hanno imposto misure cautelari per porre fine ad atti di plausibile genocidio e per garantire l’ingresso di beni essenziali a Gaza. Esportando armi a Israele, l’Italia starebbe perciò violando precisi obblighi di prevenzione di atti di genocidio e si sarebbe resa complice della facilitazione della commissione di atti plausibilmente genocidari”.

Se le responsabilità del nostro Paese sono quindi evidenti, anche davanti agli organi di giustizia internazionale, vengono ignorate dal governo. Il ministro degli esteri Tajani, durante il suo intervento al Senato di giovedì scorso, si è espresso in modo vago, ribadendo la spinta dell’Italia verso il cessate il fuoco: “In questa fase particolarmente delicata è fondamentale mantenere ed espandere tutti i canali di dialogo per allentare le tensioni e interrompere la spirale di violenza che rischia di innescare un conflitto in tutta la regione”.

Come può l’Italia mantenere una visione oggettiva e porsi come interlocutore nelle relazioni di pace se deve contrapporsi a uno dei suoi partner commerciali? Le armi infatti non sono l’unico prodotto di scambio tra i due Paesi. Tra le partecipate dello Stato ad avere interessi nell’area, c’è anche l’Eni. Israele, essendo priva di risorse fossili interne, è interamente dipendente dalle importazioni straniere, e, tra ottobre 2023 e luglio 2024, l’Italia si è posizionata tra i Paesi fornitori di petrolio greggio e raffinato, sollevando anche qui preoccupazioni circa una possibile complicità nella violazione del diritto umanitario internazionale.

In una ricerca pubblicata dall’organizzazione Oil Change International e ripresa dal “Guardian”, l’Eni, insieme alla britannica Shell, ha partecipato alla spedizione di trentamila tonnellate di greggio dalla Basilicata verso i porti israeliani. Secondo le indagini di Oil Change International, ci sono state 65 spedizioni di petrolio a Tel Aviv, di cui 35 effettuate dopo il 28 gennaio 2024, quando la Corte internazionale di giustizia ha accettato di esaminare l’accusa di genocidio. Circa il 36% di queste spedizioni è attribuibile a grandi multinazionali fossili, tra cui Shell, BP, Chevron ed Eni. La compagnia italiana, partecipata al 30,5% dallo Stato, è coinvolta anche nella gestione del Caspian Pipeline, un oleodotto che trasporta petrolio dal Kazakistan a Tel Aviv, e nell’accordo per la licenza di esplorazione delle risorse petrolifere al largo di Gaza.

Nonostante quest’area marittima, la cosiddetta zona G, sia per il 62% nei confini dichiarati dalla Palestina secondo la Convenzione di Montego Bay, Israele continua a impedirne lo sfruttamento da parte dei palestinesi e a favorire intese commerciali internazionali che ne tutelino il controllo. Quattro associazioni arabe – Al Mezan Center for Human Rights, Al Haq, Palestinian Centre for human Rights (Pchr) e Adalah – hanno segnalato l’irregolarità dell’accordo, rivolgendosi allo studio legale Foley Hoag Llp, con sede a Boston, che a febbraio ha invitato la compagnia energetica italiana a non intraprendere le ricerche nell’area. Anche rispetto alla questione Eni, Tajani si è espresso in modo astratto, sostenendo che l’azienda abbia partecipato all’accordo “nel rispetto delle regole”, e aggiungendo che “il contratto è ancora in fase di negoziazione. Il consorzio perciò non ha alcuna titolarità sull’area né sono in corso operazioni, che avrebbero comunque natura esplorativa.”

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Per ora, infatti, non sono ancora partiti i blocchi esplorativi offshore previsti e, secondo il ministro, c’è ancora margine per una negoziazione più giusta: “L’accordo non può che essere negoziato anche con l’Autorità palestinese per raggiungere una condizione equa che tuteli i diritti di ciascuno”. Ma nonostante le parole del governo, con la Leonardo che esporta armi e l’Eni il petrolio, entrambe partecipate dello Stato con oltre il 30%, è chiaro che l’Italia non possa avere una posizione politica chiara nei confronti delle operazioni genocidarie del governo Netanyahu.



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