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Si fanno i nomi di Palmer Luckey, il fondatore di Oculus VR e del contractor per la Difesa Anduril Industries, o di Joe Lonsdale, l’imprenditore e venture capitalist che invece ha fondato il gigante dei Big Data Palantir Technologies. Sono fra i candidati a far parte del Department of Government Efficiency (Doge) – formalmente un ente esterno all’esecutivo di Donald Trump e guidato da Elon Musk, con il compito di razionalizzare e reindirizzare la spesa pubblica; nella pratica, un governo nel governo, con ampi poteri. Si fanno altri nomi, per lo più di altri 30, 40enni di successo della Silicon Valley. In Europa, di tutto ciò si parla malissimo: è considerato una minaccia all’assetto democratico. In America, invece, molti sono convinti che si tratti di una fase necessaria e strategica per rispondere alla sfida tecnologica posta da Pechino e che abbia il merito di porre nell’agenda politica Usa i temi dell’innovazione, e soprattutto quelli dell’IA, dei Big Data, della Space Economy e del tech militare.
Formalmente, ciò che accade è un effetto del “capitalismo politico”: un sistema in cui politica e mercato smettono di operare come sfere separate per intrecciarsi in profondità. Si dirà che negli Usa c’è sempre stato; ma prima questa correlazione era più sfumata, meno visibile e istituzionalizzata. Dalle parti di Washington la sicurezza nazionale è ora diventata il nuovo fulcro dell’economia, con settori strategici come l’intelligenza artificiale, lo spazio, i semiconduttori e la biotecnologia che si trovano al centro delle attenzioni (e delle misure) del governo; al contempo, figure come Elon Musk e Peter Thiel non sono solo imprenditori di successo: rappresentano il nuovo volto del potere economico-politico, capaci di influenzare le priorità nazionali con le loro visioni e i loro investimenti. Questo modello consente al governo di Washington di intervenire direttamente per sostenere aziende cruciali, garantendo che queste possano competere con le controparti cinesi, supportate da massicci investimenti statali. La Cina ha costruito un sistema centralizzato in cui lo Stato guida il progresso tecnologico, investendo enormi risorse nei settori prioritari e subordinando il mercato alle priorità nazionali. In altre parole: per contrastare la forza cinese, il capitalismo tradizionale americano, basato su mercati aperti e regolamentazioni più leggere, forse non sarebbe stato sufficiente.
È la visione di Alessandro Aresu, analista strategico, esperto di geopolitica e politiche pubbliche, nonché una delle voci di riferimento in Italia su temi legati alla tecnologia, all’economia e alla sicurezza internazionale. Nel corso della sua carriera, ha ricoperto ruoli di consulenza per istituzioni italiane, tra cui la Presidenza del Consiglio, il Ministero dell’Economia e il Ministero degli Esteri, ed è stato consigliere d’amministrazione dell’Agenzia Spaziale Italiana. Attualmente è consigliere scientifico della rivista Limes. Di recente, ha pubblicato un libro sull’IA, Geopolitica dell’intelligenza artificiale.
Non resta che porsi una domanda: cosa accade, in questa fase storica, a uno o più Paesi che adottino un modello diverso, che non ponga tra le priorità strategiche l’innovazione tecnologica? L’esempio è sotto gli occhi di tutti: è l’Unione Europa. Qui il capitalismo politico non esiste, ed è anzi avversato. Potrebbe mai imporsi nella terra di Margrethe Vestager? No. In Europa il mercato e la politica tendono a rimanere separati, con governi che raramente intervengono per sostenere l’innovazione tecnologica in modo sistematico. Questo approccio lascia i settori strategici in secondo piano, senza un coordinamento tra pubblico e privato per affrontare sfide cruciali come la transizione digitale, la Space Economy o l’intelligenza artificiale. Di conseguenza, temi centrali vengono trascurati, e l’Europa soccombe nella competizione con le due potenze globali.
D: Si parla di una nuova era di “capitalismo politico”, in cui figure come i venture capitalists, ad esempio Peter Thiel (cofondatore di PayPal e di Palantir Technologies, una società che sviluppa software per la sicurezza nazionale Usa) esercitano un’influenza determinante sulle scelte politiche degli Stati Uniti. Al contempo, la politica pone dei vincoli strategici all’industria. Quali potrebbero essere le conseguenze di questa tendenza a lungo termine?
R: Il “capitalismo politico” che descrivo nei miei libri si riferisce a un sistema in cui il mercato resta il principale strumento per generare ricerca e benessere, ma in cui emergono vincoli politici sempre più marcati, legati all’estensione del concetto di sicurezza nazionale. Questo significa che settori strategici come la microelettronica, lo spazio, l’aerospazio, le batterie e la biotecnologia sono ormai sotto la forte influenza di interventi politici nei Paesi che possono permetterselo, cioè quelli con una struttura economica e istituzionale capace di sostenere questa trasformazione. Un esempio concreto riguarda i macchinari per semiconduttori. Se sei un’azienda americana che realizza il 30% del suo fatturato in Cina e il tuo fatturato totale è di 30 miliardi di dollari, potrebbe accadere che il governo degli Stati Uniti ti imponga di interrompere le vendite di macchinari ai clienti cinesi. Questo porterebbe a un calo significativo del tuo fatturato, ma evidenzia come la politica stia sempre più condizionando il capitalismo.
D: Questo però non capita solo negli Usa, che pure rappresentano lo Stato più importante del mondo, sotto il profilo economico.
R: In Cina, questa politicizzazione è ancora più evidente. Non si tratta solo della presenza diretta dello Stato o dei governi locali nelle imprese, ma anche del monopolio della violenza istituzionale. Prendiamo il caso di Jack Ma, l’imprenditore più noto e ricco della Cina, che una volta ha criticato il sistema finanziario cinese e il Partito Comunista. Il risultato? È sparito per mesi, un chiaro messaggio di Xi Jinping: nessuno, nemmeno il più potente degli imprenditori, può sfidare il partito. Questi elementi non sono dettagli marginali: sono dinamiche centrali nella nostra epoca e determinano un cambio di paradigma. Negli Stati Uniti, per esempio, la politica si occupa sempre meno di distribuzione sociale o di welfare e sempre più di sicurezza nazionale. Questo porta alla crescita di nuovi attori, come venture capitalists, investitori e imprenditori, che collegano direttamente i propri interessi a quelli della sicurezza nazionale.
D: Ecco, come si intrecciano gli interessi di un venture capitalist a quelli della sicurezza nazionale?
R: Un caso emblematico è Palantir, che si definisce un’azienda patriottica americana, al punto da presentarsi come una garanzia della sicurezza nazionale stessa. E per sostenere queste tesi, tali aziende comprano letteralmente la politica. Nel sistema statunitense, questa pratica non è considerata un illecito: chiunque può finanziare un Super PAC per promuovere l’elezione di un politico, anche a livello presidenziale. Questa trasformazione ha cambiato i riferimenti politici. Fino a pochi anni fa, nel Partito Repubblicano, i principali finanziatori erano figure come Sheldon Adelson, il più grande gestore di casinò negli Stati Uniti. Ora, al posto di questi imprenditori tradizionali, ci sono i nuovi capitalisti della Silicon Valley, che non guadagnano più solo dai social network o dall’intrattenimento, ma vogliono influire sempre di più in settori legati alla sicurezza, come i sistemi di analisi dei dati o la produzione di armamenti avanzati. Gli Stati Uniti, che avevano ridimensionato la produzione di armamenti per un certo periodo, ora stanno riemergendo in questo campo con tecnologie avanzate. Questo è il nuovo orizzonte del capitalismo politico, in cui sicurezza nazionale e interessi economici di questi nuovi attori si sovrappongono sempre di più. È in questo contesto che dobbiamo collocare il ragionamento, considerando le implicazioni a lungo termine di questa trasformazione.
D: Dunque, in questo contesto irrompe Elon Musk, forse lo sponsor più importante – sicuramente il più noto – del presidente Donald Trump. In Europa, e in Italia in particolare, ci si è concentrati sul conflitto di interesse, e quindi sul “capitalismo politico”. Tuttavia, è difficile negare che la presenza stessa di Musk nell’esecutivo Usa significa puntare l’attenzione su temi fondamentali per lo sviluppo economico, come l’intelligenza artificiale, la Space Economy, la medicina avanzata. Sono ambiti strategici, dei quali l’EU sembra disinteressarsi. Forse, in Europa dovremmo chiederci se non sarebbe meglio avere una figura come Musk?
R: Sono d’accordo. Certo, come ogni imprenditore che fa politica, Musk porta anche i suoi interessi personali sul tavolo, e questo è innegabile. Tuttavia, dobbiamo ricordare l’enorme contributo che Musk ha dato al mondo in questo secolo. È il protagonista assoluto di ciò che chiamiamo Space Economy. Questa economia, di fatto, esiste perché c’è stato Elon Musk. L’abbattimento dei costi per portare materiali, satelliti e persino esseri umani nello spazio è avvenuto grazie al suo lavoro. Questo ha reso possibile sviluppare servizi spaziali che migliorano la vita anche sulla Terra, ed è un merito che non può essere ignorato. Inoltre, Musk capisce come funzionano le aziende e cosa comporta la manifattura su larga scala. Tesla è un esempio evidente di produzione su vasta scala, ma anche SpaceX lo è. SpaceX non si limita a lanciare razzi: produce circuiti stampati, sistemi di propulsione e una moltitudine di altri componenti tecnologici. Quindi sì, Musk è una figura che fa politica, anche per i propri interessi, ma lo fa con una visione imprenditoriale e tecnologica di frontiera. E questo lo rende un caso unico, un esempio che in Europa dovremmo studiare e, se possibile, cercare di emulare.
D: Insieme a Vivek Ramaswamy, un altro facoltoso imprenditore, Elon Musk guiderà il Department of Government Efficiency (Doge), un ente esterno di consulenza che, pur non essendo formalmente parte dell’amministrazione, avrà un’influenza significativa e ampi margini di azione per migliorare l’efficienza governativa. Ma di cosa parliamo veramente?
R: Il punto centrale è questo: Doge è legato a ciò che dicevamo prima. Si tratta di un progetto che punta, da un lato, a individuare settori del bilancio pubblico da razionalizzare, come il gigantesco bilancio della difesa degli Stati Uniti. Per darvi un’idea, la spesa per la difesa nell’anno fiscale 2025 è stimata a circa 850 miliardi di dollari. Una parte significativa di questi fondi finisce a colossi tradizionali come Boeing e Lockheed Martin, che in molti casi gestiscono risorse in maniera inefficiente o superata. L’idea dietro Doge è di razionalizzare questi aspetti della spesa pubblica e ridirigere le risorse verso innovazioni più efficienti, e senz’altro anche più in linea con gli interessi di Musk. Questo si collega al discorso più ampio sulle autorizzazioni. Anche SpaceX, per operare, deve ottenere autorizzazioni ambientali e certificazioni dalla Faa, l’agenzia americana per l’aviazione. Una delle visioni dietro Doge è liberare aziende innovative da queste pastoie regolatorie, creando un ambiente più agile per le imprese di frontiera tecnologica. Tuttavia, la spesa pubblica statunitense e il sistema delle agenzie federali sono molto complessi e difficili da cambiare. Non è una sfida semplice, neanche per un imprenditore visionario come Musk, anche se ha un forte mandato per cercare di introdurre modifiche significative in questo sistema.
D: È un effetto del capitalismo politico?
R: Ne parlo anche nel mio libro Geopolitica dell’intelligenza artificiale: c’è una chiara intenzione di riorientare i vettori della spesa pubblica, in particolare nel settore della difesa, verso tecnologie avanzate. Questo significa spostare risorse dai “dinosauri” come Lockheed Martin e Boeing verso aziende più innovative. E chi sono queste aziende? Spesso fanno capo a figure come Elon Musk, Peter Thiel, Palmer Luckey, e altri imprenditori che hanno fondato startup rivoluzionarie anche in ambiti legati alla Difesa. Quindi, Doge rappresenta un disegno più ampio: ridurre gli sprechi, innovare il settore pubblico e rafforzare il legame tra lo Stato e le imprese di frontiera tecnologica, spostando l’asse della spesa pubblica verso chi ha una visione più moderna e dinamica.
D: Le due grandi potenze del “capitalismo politico”, Usa e Cina (anche se il termine assume un significato diverso nei due paesi, essendo in Cina un fenomeno molto più importante, come si è detto) sono ai ferri corti. Emergono rischi di divisione tecnologica e dipendenza strategica. Come vede la possibilità di un decoupling completo tra queste due potenze?
R: La relazione tra Stati Uniti e Cina è caratterizzata da un interscambio commerciale di centinaia di miliardi di dollari, con un significativo deficit commerciale a sfavore degli Stati Uniti. Questo tema è centrale nel dibattito politico statunitense, soprattutto con la prospettiva della nuova amministrazione Trump. Un personaggio chiave in questo dibattito è Robert Lighthizer, già protagonista nell’amministrazione Reagan negli anni Ottanta e nell’amministrazione Trump dal 2017 al 2021. Lighthizer è un esperto di politiche commerciali e ha affrontato questioni simili con il Giappone, in particolare sul tema delle tecnologie elettroniche. Il concetto che promuove è quello di decoupling strategico, che non significa azzerare completamente il commercio tra Stati Uniti e Cina, ma ridurlo in settori tecnologici strategici e con l’obiettivo di ridurre il deficit. Parliamo di tecnologie come i semiconduttori, l’intelligenza artificiale, le tecnologie quantistiche, le biotecnologie, le batterie, lo spazio e l’aerospazio. L’obiettivo di Lighthizer è anche abbattere il deficit commerciale statunitense, imponendo dazi e riducendo la dipendenza dalla Cina in questi ambiti. Tuttavia, realizzare un decoupling totale non è semplice, perché viviamo in un’economia interconnessa, basata su filiere globali. Per esempio, per produrre uno smartphone o un personal computer, diverse aziende e Paesi collaborano lungo la filiera. Scardinare questi meccanismi economici per motivi politici è estremamente complesso.
D: Considerando queste complessità, quale futuro si prospetta? È possibile immaginare una separazione parziale tra le due economie? E quali potrebbero essere le conseguenze di questa trasformazione sull’equilibrio economico globale?
R: Siamo già in una fase di trasformazione. La dipendenza eccessiva tra Stati Uniti e Cina sta venendo ripensata attraverso il coinvolgimento di altri Paesi, come Messico, Vietnam e Malesia, che stanno diventando attori chiave per riorganizzare queste filiere. Il Vietnam, ad esempio, è una valida alternativa per alcune produzioni industriali rispetto alla Cina, mentre il Messico sta emergendo nell’assemblaggio di elettronica. Questi fenomeni stanno riducendo la centralità della relazione commerciale tra Stati Uniti e Cina e, molto probabilmente, cresceranno nei prossimi anni. Tuttavia, un decoupling completo resta improbabile, perché la complessità delle supply chain globali rende quasi impossibile separare completamente le economie delle due maggiori potenze tecnologiche.
D: Che ruolo giocano aziende tecnologiche come Nvidia – specializzata nella progettazione e produzione di unità di elaborazione grafica per vari settori, tra cui il gaming, il professionale e l’automotive, e quindi centrale per molte industrie – in questa fase di trasformazione?
R: In questo contesto, aziende come Nvidia giocano un ruolo cruciale, poiché rappresentano il fulcro dell’innovazione tecnologica. La loro posizione nelle filiere avanzate, come quella dei semiconduttori e dell’intelligenza artificiale, le rende indispensabili, e proprio per questo diventano protagoniste di questa nuova fase di competizione globale, venendo anche strattonata da una parte o dall’altro per ragioni politiche.
D: Tra le due potenze, Usa e Cina, forse la partita più importante è quella dell’intelligenza artificiale. Sono i due Paesi che investono di più, anche perché dispongono di colossi di settore (ad esempio Microsoft, Google, Amazon, Meta, Alibaba, Tencent e ByteDance) Impegnati sul campo. A livello globale, però, emergono due freni fondamentali: da una parte la limitatezza delle risorse naturali necessarie per l’IA (silicio, gallio, germanio), dall’altra le pressioni ambientaliste. Come pensa che finirà?
R: Direi che ci sono due elementi principali da tenere in considerazione. Il primo è che noto già un cambiamento nel discorso pubblico su questi temi, in particolare sull’importanza dell’infrastrutturazione energetica. Ad esempio, da un po’ non sento più parlare di Greta Thunberg. In compenso, oggi, quando si discute di energia, si parla sempre più di litio, cobalto, terre rare, cioè della dimensione materiale della transizione energetica. Questo aspetto sta finalmente entrando nella narrativa dominante. Il secondo elemento riguarda la sfida legata all’infrastrutturazione energetica e alla generazione di elettricità. Un caso interessante è quello della Cina: negli ultimi anni ha fatto enormi progressi nella generazione di energia elettrica, installando pannelli solari su scala vastissima. Questa capacità non è separata dallo sviluppo tecnologico: è proprio il legame tra avanzamento tecnologico e capacità di messa a terra delle infrastrutture a riportare questi temi al centro del dibattito globale. La transizione materiale ed energetica non si può più ignorare, e queste due dimensioni continueranno a modellare il futuro dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie ad essa connesse.
(Ripubblicazione dell’articolo pubblicato il 18 dicembre)
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