Nonostante i correttivi annunciati dal governo, la Transizione 5.0 rimarrà un’occasione mancata. La misura, già bollata come un flop per la sua complessità e i ritardi iniziali, sembra destinata a replicare il suo fallimento. I due problemi di fondo, infatti, restano irrisolti: il meccanismo è ancora troppo articolato, con costi e procedure che scoraggiano soprattutto le piccole imprese, e la mancata proroga della scadenza al 31 dicembre 2025 che rende i tempi troppo stretti per realizzare progetti complessi o per acquistare macchinari personalizzati.
Anzitutto, che cos’è Transizione 5.0? È un programma di crediti d’imposta destinato alle imprese che nel biennio 2024-2025 investono in macchinari, impianti o tecnologie che migliorare l’efficienza energetica. Inserito nel capitolo RepowerEu del Pnrr a fine 2023 e pertanto dotato di un budget pari a circa 6,3 miliardi, è stato “bruciato” dal complicato percorso burocratico (16 “passaggi”) e dal ritardo nell’emanazione dei decreti attuativi e nell’attivazione di un apposito sportello virtuale, operativo solo da settembre 2024. Quanto al primo problema, si pensi soltanto alle valutazioni ex ante ed ex post, obbligatorie per ottenere il credito d’imposta: nella pratica, si richiedeva alle imprese di dimostrare, prima e dopo l’investimento, il risparmio energetico generato dall’acquisto di nuovi macchinari. Una procedura complessa e rischiosa, comportante il coinvolgimento di più figure professionali esterne e il rischio di valutazioni non rispettose delle previsioni, con la compromissione dell’accesso agli incentivi. Quanto al secondo problema, l’incertezza sul da farsi prima dei decreti e quella di completare le procedure nei tempi dopo la loro emanazione ha fatto sì che molte aziende hanno preferito aspettare, prima di imbarcarsi in operazioni costose; addirittura, una parte degli ordini di nuovi macchinari è stata imputata all’esercizio 2026. Il risultato? La prenotazione dei crediti si è arrestata a quota 200 milioni per circa 650 aziende. Niente. Il primo anno è perduto. Tutto ciò peraltro ha impattato negativamente sui produttori di macchine utensili, un settore strategico per l’economia italiana e che vale oltre 8 miliardi di euro e impiega circa 32mila addetti: annovera aziende come Scm, Ficep, Biesse, Salvagnini, Pietro Carnaghi, Rosa Ermando, Prima Industrie.
Dunque? il governo, di recente, per evitare un clamoroso fallimento nel mancato utilizzo di risorse Eu, ha negoziato con la Commissione Europea una serie di modifiche, ora in fase di inserimento nella legge di Bilancio. Le principali novità includono la riduzione degli scaglioni di investimento da tre a due, con un’aliquota potenziata fino al 45% per investimenti tra 2,5 e 10 milioni di euro, e la cumulabilità con altri incentivi europei, come il bonus per le Zone Economiche Speciali. È stata introdotta l’automatizzazione del calcolo dei risparmi energetici per macchinari vecchi, e un credito d’imposta maggiorato per i moduli fotovoltaici europei. Queste migliorie, però, non incidono sulle cause del fallimento di Transizione 5.0.
Ma veniamo alle questioni irrisolte. Quanto alla prima, le imprese devono affrontare un iter che resta comunque troppo articolato e che richiede certificazioni energetiche, perizie tecniche e validazioni fiscali da parte di professionisti qualificati. Ogni passaggio comporta peraltro spese significative, che spesso finiscono per annullare i benefici del piano. Il problema principale è che per rendere conveniente aderire alla Transizione 5.0, il progetto deve avere un valore minimo di 170-200 mila euro. Questa soglia di convenienza economica rappresenta un limite naturale per molte piccole imprese, che tipicamente investono in progetti di dimensioni più contenute, come l’acquisto di macchinari dal costo di 20-30 mila euro. In questi casi, i costi burocratici – come le parcelle di certificatori, periti e revisori – sono così alti che rendono impossibile recuperare il valore del credito d’imposta, spingendo molte piccole realtà a rinunciare.
Quanto alla seconda, la mancata proroga della scadenza al 31 dicembre 2025 crea un grosso problema per le imprese che vogliono investire in macchinari industriali personalizzati. Questi macchinari, progettati e realizzati su misura per rispondere alle esigenze specifiche delle aziende, richiedono tempi molto lunghi per essere prodotti, consegnati e installati, spesso superando i 12-15 mesi. Con la scadenza attuale, le aziende rischiano di non riuscire a completare tutte le fasi necessarie per accedere ai crediti d’imposta. L’iter, infatti, non si limita all’acquisto del macchinario, ma comprende anche il collaudo, l’interconnessione con il sistema produttivo aziendale e le citate certificazioni obbligatorie, che richiedono ulteriori settimane o mesi. Nonostante la proposta di un allungamento dei termini fino ad aprile 2026, il governo non è riuscirà ad approvarla, dal momento che la misura è stata stralciata dai lavori in corso; così, si lasciano intatte molte delle difficoltà che la misura sta incontrando.
Transizione 5.0: novità, correttivi in corso di approvazione e modifiche per semplificare l’accesso agli incentivi
Il Piano Transizione 5.0 prevedeva inizialmente una struttura di tre scaglioni di investimento, ognuno con aliquote differenziate in base all’entità dell’investimento. Questo sistema era stato ideato per modulare gli incentivi, garantendo un sostegno proporzionato sia ai progetti più piccoli sia a quelli di maggiore portata.
Il primo riguardava gli investimenti fino a 2,5 milioni di euro, con una aliquota di credito d’imposta del 35%. Questo livello era pensato per sostenere le piccole imprese e i progetti di minore entità, incentivandoli a intraprendere percorsi di innovazione e sostenibilità. Il secondo si applicava agli investimenti compresi tra 2,5 e 10 milioni di euro, con una aliquota del 25%. Questa fascia era rivolta alle medie imprese o a progetti più strutturati, per stimolare interventi significativi senza penalizzare troppo gli investimenti maggiori. Il terzo interessava gli investimenti superiori ai 10 milioni di euro, con un’aliquota del 15%. Questa categoria, destinata ai grandi progetti industriali, aveva l’obiettivo di incentivare comunque investimenti importanti, anche se con un contributo proporzionalmente inferiore.
Questa struttura si è rivelata troppo complessa e poco vantaggiosa per molte imprese, soprattutto per quelle di dimensioni medio-piccole, che si trovavano a dover affrontare calcoli intricati e requisiti burocratici onerosi. Per questo motivo, come si diceva sono state studiate delle modifiche, volte a semplificare il sistema e a renderlo più accessibile. Si accennava al cambiamento principale, la riduzione degli scaglioni da tre a due: in pratica, sono state unificate le fasce di investimento fino a 10 milioni di euro e attribuendo un’aliquota massima più vantaggiosa, fino al 45%, per incentivare la partecipazione di una platea più ampia di imprese.
In secondo luogo, la Transizione 5.0 diventa poi cumulabile con il bonus Zes (Zone Economiche Speciali) e altri incentivi finanziati dall’UE, a patto che non vi siano sovrapposizioni di costi. Questo è un passo significativo per le imprese del Mezzogiorno, che possono beneficiare di un doppio supporto finanziario.
Ancora, un altro miglioramento è legato alla citata sostituzione di macchinari vecchi (già ammortizzati da almeno 24 mesi). In questo caso, il risparmio energetico verrà calcolato in maniera automatica: 3% per la struttura produttiva e 5% per i processi interessati.
Infine, come si è accennato, è stato introdotto un credito d’imposta maggiorato per l’acquisto di moduli fotovoltaici ad alta efficienza prodotti nell’Unione Europea. Questo intervento ha lo scopo di ridurre il gap di prezzo con i moduli di produzione cinese, incentivando la produzione interna e sostenendo il mercato europeo.
Le criticità irrisolte della Transizione 5.0: la complessità burocratica e la frammentazione delle competenze come ostacoli all’accesso e all’efficacia della misura
Il presidente di Duferco e di Federacciai (le aziende siderurgiche sono importanti acquirenti di macchine industriali) Antonio Gozzi lo ha affermato in più di una intervista: «Transizione 5.0 non funziona perché la misura è troppo complessa».
Come si accennava, la misura richiede infatti il coinvolgimento di più professionisti specializzati, ognuno con un compito preciso e distinto: anzitutto, il perito di interconnessione, che verifica e certifica che il bene acquistato rispetti i requisiti tecnologici e di interconnessione previsti dalla Transizione 5.0: in secondo luogo, il certificatore energetico, che deve valutare e certificare il risparmio energetico ottenuto grazie all’investimento, sia ex-ante che ex-post; infine, il revisore legale, che si occupa di validare fiscalmente la documentazione relativa al credito d’imposta, aggiungendo un ulteriore livello di verifica.
In particolare, un nodo critico è rappresentato dalla misurazione dell’efficientamento energetico, requisito fondamentale per ottenere il credito d’imposta. Le aziende devono dimostrare miglioramenti tangibili rispetto ai consumi precedenti, un processo reso complesso dalla variabilità dei contesti produttivi. Per un esperto che preferisce non essere citato «la stessa macchina può produrre un’efficienza energetica del 7% in un capannone e dello 0% in un altro, a seconda della linea produttiva preesistente». Questa imprevedibilità aggiunge ulteriore incertezza e complessità al percorso di certificazione, rendendo il programma poco accessibile per molte imprese.
Comunque sia, la necessità di figure diverse e di competenze così specializzate non solo complica il processo, ma rischia anche di lasciare spiazzate quelle aziende che non sanno a chi rivolgersi. Le Pmi, in particolare, si trovano spesso in difficoltà nel reperire professionisti affidabili, con la conseguenza di ritardi ulteriori e possibili errori nella documentazione. «Non tutte le imprese sanno a chi riferirsi per trovare un certificatore energetico o un revisore legale qualificato. Questo può bloccare l’intero iter o generare costi aggiuntivi imprevisti», spiega ancora l’esperto. Inoltre, mentre il certificatore energetico e il revisore legale intervengono in momenti specifici del processo, il coordinamento tra queste figure diventa essenziale per garantire che tutti gli aspetti del progetto siano allineati. E chi lo fa, questo coordinamento? «Non si può pensare che un imprenditore di una Pmi riesca a destreggiarsi tra certificazioni, perizie e revisori legali da solo», sottolinea l’esperto, evidenziando come la complessità della misura obblighi molte imprese a ricorrere a consulenti esterni o a general contractor, figure specializzate che si occupano di tenere le fila di tutte le fasi del progetto.
In realtà, per affrontare queste criticità, sarebbe fondamentale introdurre meccanismi che semplifichino ulteriormente l’iter, magari prevedendo una certificazione unificata per i progetti più semplici o introducendo strumenti di supporto pratico alle imprese, come voucher per i servizi di consulenza. Ma queste misure non sono nell’agenda dei lavori.
Le criticità irrisolte della Transizione 5.0: il peso dei costi e l’esclusione delle microimprese dai benefici di una misura complessa e onerosa
Come si diceva, un altro elemento che continua a rappresentare una criticità per la Transizione 5.0 riguarda il problema dei costi, nonostante l’apparente semplificazione derivante dalla riduzione degli scaglioni di investimento. Questa misura, insieme al citato potenziamento dell’aliquota al 45% per lo scaglione è pensato per rendere Transizione 5.0 più accessibile e vantaggiosa, soprattutto per le piccole e medie imprese, che rappresentano la fascia più ampia dell’economia italiana e che, con questo incentivo, dovrebbero essere facilitate nella realizzazione di progetti di efficientamento energetico e innovazione.
La misura continua a escludere di fatto molte piccole imprese, soprattutto quelle che vorrebbero avviare investimenti di dimensioni più contenute. Il problema principale risiede nella citata soglia minima di convenienza economica. È una cifra rappresenta un limite naturale per molte piccole imprese, che spesso programmano investimenti più modesti, come l’acquisto di macchinari dal costo di poche decine di migliaia di euro. In questi casi, i costi accessori, legati a certificazioni energetiche, perizie tecniche e assistenza di professionisti, rischiano di annullare o addirittura superare i benefici fiscali offerti dal piano. Un macchinario da 20 o 30 mila euro, ad esempio, potrebbe richiedere spese aggiuntive considerevoli per essere conforme ai requisiti della Transizione 5.0. Tra certificatori, revisori legali e periti, una piccola impresa si trova a sostenere costi che spesso non giustificano l’investimento. Il risultato è che molte realtà, pur avendo bisogno di innovare, finiscono per rinunciare agli incentivi, preferendo rimandare i progetti o puntare su strumenti meno complessi, come l’Industria 4.0.
«Un progetto piccolo rischia di non reggere il peso di tutta questa burocrazia e dei costi richiesti per le perizie», sottolinea l’esperto, evidenziando come siano le microimprese a soffrire maggiormente questa dinamica. Questi costi, infatti, non sono affatto trascurabili: prima abbiamo citato l’intervento necessario di più figure professionali, per realizzare la perizia energetica, la certificazione fiscale e la verifica di interconnessione. Ognina di queste può rappresentare un costo significativo, e per un’impresa di piccole dimensioni, che magari vuole investire in un solo macchinario, queste spese rischiano di essere sproporzionate rispetto al beneficio finale. E poi anche se alcuni passaggi sono stati semplificati, come l’automatizzazione dei risparmi energetici nel caso di sostituzione di macchinari vecchi, rimangono obbligatori per i progetti più complessi e articolati.
E d’altra parte, anche il citato potenziamento dell’aliquota, pur essendo una misura positiva, appare insufficiente a coprire le spese iniziali per quei progetti meno strutturati, dove l’ammontare dell’investimento non giustifica l’onere burocratico ed economico richiesto. «Se investo in un macchinario da poche decine di migliaia di euro e devo sostenere costi per perizie e certificazioni, mi conviene rinunciare e puntare su soluzioni più semplici», spiega ancora l’esperto, evidenziando la difficoltà di far quadrare i conti in questi casi.
Di fronte a queste dinamiche, molte imprese si trovano a fare una valutazione di tipo costi-benefici: se il credito ottenuto non è sufficientemente elevato, l’azienda preferisce rinunciare alla Transizione 5.0 e puntare su misure più semplici, come l’Industria 4.0, che offre aliquote inferiori ma con un processo molto più lineare e costi di accesso ridotti. Questo spiega perché la Transizione 5.0, nonostante le intenzioni iniziali, rischia di diventare una misura destinata prevalentemente a grandi imprese o a Pmi con risorse sufficienti per affrontare progetti ambiziosi e articolati. Le microimprese, invece, che rappresentano una parte significativa del tessuto produttivo italiano, ne restano escluse. «È un paradosso: chi avrebbe più bisogno di un supporto per innovare si trova di fatto tagliato fuori», conclude l’esperto.
Le criticità irrisolte della Transizione 5.0: la mancata proroga della scadenza al 31 dicembre 2025 e le conseguenze sulle imprese e sul mercato
Già mesi fa il presidente di Confindustria Brescia Franco Gussalli Beretta aveva affermato che la scadenza del 31 dicembre 2025 è troppo ravvicinata perché le aziende completino i loro investimenti.
Come si diceva, per l’ottenimento dei benefici di Transizione 5.0 non vanno considerati solo i tempi per l’acquisto, ma anche quelli per l’installazione, il collaudo e l’interconnessione di macchinari. Come si diceva, la situazione si fa particolarmente delicata per le imprese che scelgono di investire in macchinari personalizzati, nonché per quelle che li realizzano. Cerchiamo di capire il perché. Ogni progetto inizia con una fase di progettazione dedicata, in cui vengono analizzati i requisiti e sviluppate soluzioni ad hoc, un processo che può richiedere settimane o mesi. A questo si aggiunge il tempo necessario per la produzione, che, a differenza delle macchine standard pronte a magazzino, prevede la realizzazione di componenti unici e lavorazioni specifiche, spesso complesse. Inoltre, queste macchine devono essere integrate con i sistemi produttivi esistenti del cliente, un’operazione che richiede adattamenti e ulteriori modifiche per garantire che tutto funzioni perfettamente. Prima della consegna, le macchine personalizzate sono sottoposte a collaudi rigorosi per verificare che rispettino i requisiti richiesti, un passaggio fondamentale ma che allunga ulteriormente i tempi. Anche la logistica gioca un ruolo importante: la consegna e l’installazione possono richiedere preparazioni specifiche presso l’impianto del cliente. Infine, molte componenti necessarie per queste macchine provengono da fornitori esterni specializzati, e i tempi di consegna di questi ultimi possono influire sull’intero processo. Tutti questi elementi combinati spiegano perché le macchine utensili personalizzate, pur rappresentando un grande valore per l’industria, richiedano un tempo significativamente maggiore per essere realizzate rispetto alle macchine standard. «Un’impresa che ordina oggi un macchinario personalizzato rischia di non fare in tempo», sottolinea un esperto che non desidera essere citato; peraltro, le citate “fasi successive” sono altrettanto decisive e rallentano ulteriormente il percorso. «Ogni fase aggiunge settimane, se non mesi, ai tempi complessivi, e questo è particolarmente penalizzante per i macchinari personalizzati», sottolinea ancora l’esperto.
Come si accennava, la rigidità temporale colpisce lato acquirente soprattutto le piccole e medie imprese, che, per loro natura, necessitano di tempi più lunghi per pianificare e organizzare investimenti complessi.
Così, per ora il risultato di Transizione 5.0 è un doppio rallentamento: da un lato, le imprese clienti evitano di investire in nuovi macchinari per timore di non riuscire a navigare nella complessità del piano; dall’altro, i produttori di macchine utensili subiscono una riduzione della domanda interna. Nel 2024, la produzione di macchine utensili si è attestata a 6.745 milioni di euro, segnando un calo dell’11,4% rispetto all’anno precedente. Il calo è stato determinato esclusivamente dalla forte contrazione delle consegne dei costruttori sul mercato interno il cui valore si è fermato a 2.255 milioni di euro, pari al 33,5% in meno del 2023, zavorrate dalla bassa propensione agli investimenti da parte degli utilizzatori italiani. «I costruttori italiani stanno soffrendo un rallentamento della richiesta di nuove macchine, perché le aziende clienti sono scoraggiate dalle difficoltà di accedere al 5.0», ha affermato giorni fa il presidente di Ucimu (l’associazione dei costruttori italiani di macchine utensili) Riccardo Rosa, nel corso della prima edizione dell’Industria Italiana Summit, evento moderato giorni fa dal direttore Filippo Astone e denominato “Partita a scacchi di industrie e tecnologie abilitanti nel 2025: le idee giuste per vincerla”. evidenziando come l’intero settore si trovi sotto pressione. A causa della mancata proroga, il quadro di insieme sembra destinato a rimanere immutato.
Il settore delle macchine utensili, già provato da una riduzione della domanda a livello globale e da difficoltà legate alla situazione geopolitica, sta così affrontando una crisi ulteriore. Per Riccardo Rosa, «in un momento in cui il comparto aveva bisogno di supporto per sostenere la competitività, la Transizione 5.0 ha finito per penalizzare ulteriormente i costruttori italiani».
(Ripubblicazione dell’articolo pubblicato il 20 dicembre)
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