il futuro della ristorazione nella settima stagione di Chef’s Table

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Credo non ci siano dubbi: la serie Netflix Chef’s Table ha cambiato per sempre il modo di raccontare il cibo davanti ad una telecamera. A livello visivo prima e a livello tematico poi, la settima stagione (disponibile dalla fine di novembre) è la più bella di tutte.

Quattro episodi, storie molto diverse accumunate tutte da una cosa soltanto e, scusate se è poco, la cucina è prima di tutto e sempre dovrebbe essere un atto d’amore. Per chi o per cosa dipende poi dalle persone. 

Un antidoto al gastronazionalismo imperante alle nostre latitudini, questa stagione ci racconta di quanto poco euro-centrica sia ormai la cucina del mondo e dei mondi, in questo terzo millennio complicato.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

Si parte  da Philadelphia dove la chef di origini thailandesi Chupatip Nok Suntaranon, donna di rara eleganza e fascino ha aperto a 48 (!) anni, il suo ristorante Kalaya. Trent’anni come assistente di volo, ora sta cambiando la scena culinaria della East Coast, con sapori che la riportano a casa, alla sua (difficile storia personale) tra gusti decisi e invenzioni meravigliose anche dal punto di vista cromatico e outfit meravigliosi.

Colorata e intensa nella cucina come negli outfit, la protagonista del primo episodio parla di emancipazione femminile, radici e migrazione sempre con un sorriso contagioso e un’eleganza naturale che non rendono meno drammatici gli accadimenti della sua storia di donna. Dalla storia complessa e dolorosa, un grande incontro quello con la Chef Chupatip Nok Suntaranon, che ci ricorda di come la storia della cucina sia (quasi) sempre una storia di migrazioni, di difficile integrazione e che metta sempre in discussione identità, prima di ogni altra cosa. 

Si prosegue con Kwane Onwuachi, dal Bronx, chef nero del luogo più cool in cui mangiare in questo istante a New York: dentro il Lincoln Center mecca delle arti, musicali e figurative della Big Apple. Una storia complicata la sua, che ci parla di case popolari, di razzismo endemico nelle cucine del grande fine dining (provata sulla sua pelle in posti come Eleven Madison Park) e di come le sue radici nigeriane si ibridino nei suoi piatti con lo street food e le influenze cinesi tipiche della Grande Mela, per creare uno stile che parte dall’Africa e che parla di tutto il mondo.

Il terzo chef è l’unico europeo, un autentico innamorato del mare, Ángel Leòn patron di Aponiente, a Càdiz. Ossessionato dai sapori come dall’equilibrio degli ecosistemi si è inventato dei modi per cucinare i pesci che i pescherecci ributtano in mare, durante la pesca dei pesci considerati pregiati e studia progetti per coltivare cereali sottomarini per sfamare il mondo, i suoi piatti tra alghe e sale che si materializza, istantaneo dall’acqua versata in un piatto sono audaci, e sorprendenti, ma il suo attaccamento e la sua battaglia per il mare e per la sua conservazione sono un messaggio dalla forza rara, e difficile da dimenticare, davvero.

Il quarto episodio, forse il più impressionante è dalla coppia di chef (nel lavoro e nella vita) Norma Listman and Saqib Keval creatori di 

Che a Città del Messico. Danno vita a un ristorante in cui il benessere dei lavoratori e l’etica sono altrettanto importanti della qualità dei piatti meravigliosi: Masala Y Maiz.

Uno storia d’amore e di riscatto ma anche di volontà di riscrivere le regole della ristorazione dopo averne visto e subito i lati peggiori, lo sfruttamento, gli abusi e le ingiustizie. 

Un progetto, il loro, che vuole essere quello di mondo più giusto e ristoranti in cui stanno bene anche quelli che stanno dentro la cucina e non solo il pubblico della sala. Piatti che ibridano in maniera gioiosa e coloratissima tradizioni a cavallo tra mondi e continenti nel segno della gioia pura del cibo e dell’incontro tra storie ed esperienze. 

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Una storia sorprendente quella dei due protagonisti, dalla battaglia contro la corruzione delle autorità locali, alla voglia di creare relazioni vere, autentiche, eticamente e finanziariamente sostenibili con staff e piccoli fornitori locali, due cuochi straordinari e due persone straordinarie, Norma e Squib, che fanno venire tanta voglia di andare subito in Messico!

Quattro episodi della durata di meno di un’ora che potrebbero insegnare molto anche ai ristoratori di casa nostra, che ci insegnano che il cibo non è mai solo cibo, ma che prima di tutto è anche quello. 

Che i  protagonisti di queste storie non potrebbero aver avuto un impatto positivo sul mondo attorno a loro sono se non fossero stati prima di tutto, grandi cuochi, ma che forse nel 2024 essere solo grandi cuochi non basta più.

Tutte e quattro le esperienze di cui ci parla con una magnifica fotografia la settima stagione di Chef’s Table ci raccontano di persone che hanno voluto creare attorno a loro un mondo più giusto, più equo per chi lavora, più sostenibile come impatto ambientale e più inclusivo verso le minoranze di qualunque tipo.

In un panorama, quello europeo, in cui ancora l’unica ambizione seria per chi cucina sia avere una stella Michelin, Chef’s Table season 7 ci mostra che in altri posti c’è chi usa la cucina per cercare di cambiare i rapporti di potere, le dinamiche di sfruttamento sugli uomini e sulle donne che lavorano, e di salvaguardare l’ambiente per i figli propri e degli altri. 

In un’Italia in cui come nel resto del mondo le cucina si reggono sul lavoro migrante e dei migranti, ma che nelle premiazioni delle guide non si vedono mai, la settima stagione di Chef’s Table può essere un antidoto al provincialismo, un modo per cominciare a ragionare su identità, diversità e sul mondo del futuro, perché al futuro non c’è mai alternativa. Il futuro succede e basta, e il futuro non è il gastronaziolismo che alcuni ancora si ostinano vanamente a difendere, ma diversità, inclusione e giustizia. 

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