Nei giorni scorsi Honda e Nissan hanno firmato un protocollo d’intesa per la loro fusione e per la nascita di una holding che, coinvolgendo anche Mitsubishi, si presenta come il terzo gruppo al mondo nel settore dell’automotive. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Oikonova.
Cosa significa per l’industria dell’auto la fusione di Honda e Nissan?
L’annuncio di queste ore è certamente un avvenimento importante. Possiamo dire che dal Giappone è partita una nuova sfida per il futuro dell’automobile. Un po’ di cautela è d’obbligo perché bisogna vedere se questa fusione si finalizzerà. Tuttavia, il potenziale è notevole. Honda e Nissan hanno una capitalizzazione differente – Honda vale 44 miliardi, Nissan vale 8 – ma annualmente producono più o meno lo stesso volume di auto: insieme fanno più di 8 milioni di veicoli. E con Mitsubishi, di cui Nissan è azionista di maggioranza, arrivano quasi a 9. Tutto ciò significa che sta nascendo il terzo polo produttivo più importante al mondo dietro a Toyota, anch’essa giapponese, e a Volkswagen.
Perché, secondo lei, un po’ di cautela è d’obbligo? Ha ragione Carlos Ghosn, ex-amministratore delegato di Nissan, che la definisce una “mossa disperata”?
Carlos Ghosn è un personaggio troppo controverso per essere preso alla lettera. Potrebbe dire ciò che dice in senso strumentale, per sua convenienza. A ogni modo, intanto è previsto che l’accordo si perfezioni entro giugno 2025. E poi, qualche incognita c’è sempre in queste grosse operazioni. Quindi, attendiamo di vedere se l’operazione andrà a buon fine. Da parte mia, tuttavia, io credo che assisteremo al suo perfezionamento. Honda è forte e Nissan ha tutto l’interesse che l’intesa si finalizzi. Honda è più competitiva, mentre Nissan è rimasta indietro sull’auto elettrica e, a differenza di Toyota, non è riuscita a beneficiare della domanda di vetture ibride, in particolare in Nordamerica. Questo a causa della sua gamma di modelli vecchi e poco attraenti. Nissan sta licenziando il 6 per cento dei suoi lavoratori e sta riducendo del 20 per cento la propria capacità produttiva. Le sue previsioni di profitto nel 2024 si sono ridotte del 70 per cento. In sintesi, l’affare sembra interessante sia per Honda sia per Nissan. Vedremo se lo sarà, anche per Mitsubishi.
Al di là delle opportunità e degli interessi reciproci, quali sono secondo lei gli obiettivi di questa fusione?
L’obiettivo dichiarato è quello di rafforzare la posizione del player nascente nel campo dell’elettrico – dove a dominare sono Tesla e i sempre più numerosi concorrenti cinesi – e nel campo dell’IA e del software digitale, sempre più importante per lo sviluppo dell’automobile. Però, vi sono anche altri fattori. L’attuale scenario internazionale, caratterizzato dall’incertezza e dalla riconfigurazione delle relazioni tra gli stati e le loro economie, costringe la grande industria a essere molto attenta alle difficoltà che provengono dalla crisi del mercato globale, dagli approvvigionamenti di materie prime, dalle nuove misure protezionistiche, dal sostegno che gli apparati statuali danno alle imprese locali, dalla necessità di essere sempre più forti nelle economie di scala. In sintesi, mi pare che l’operazione che stiamo commentando abbia le sue ragioni e le sue opportunità.
Renault possiede il 36% delle azioni di Nissan. Come si comporterà il colosso francese?
Credo che dall’headquarter di Renault saranno attenti a evitare conflitti di interesse col neo-gruppo nipponico dell’auto e che proveranno a capire i vantaggi che provengono da questa operazione. A ogni modo, se a Parigi non dovessero sentirsi in linea col nuovo progetto giapponese, l’azienda taiwanese Foxconn si è già mostrata interessata a investire in Nissan. Foxconn non è solo nota per l’assemblaggio degli iPhone ma anche per la componentistica ad alto valore aggiunto che produce proprio per il settore dell’automotive. Stellantis ne è uno dei principali beneficiari.
A proposito di Renault e Stellantis, che conseguenze avrà questa fusione sull’industria europea?
Come più volte mi è capitato di dire recentemente, il primato dell’auto oggi viene proprio dall’emisfero asiatico. Che non significa Cina, ma soprattutto Giappone e Corea, paesi da cui provengono le auto più competitive. Mi riferisco in particolare a Toyota e a Kia, case automobilistiche che sono state molto attente in questi anni a innovarsi sul piano della tecnologia digitale. E che oggi propongono al consumatore un prodotto molto avanzato a costi nettamente più vantaggiosi. Questo è il nodo sul quale l’industria europea è rimasta indietro: i suoi prodotti non sono così innovativi e costano di più. Quando Oliver Blume, amministratore delegato di Volkswagen, dice “abbiamo tre anni di tempo per invertire il trend altrimenti chiudiamo”, intende proprio questo: l’Europa è all’ultima chiamata per innovare il suo prodotto e per renderlo competitivo sul mercato. Questa è la sua missione quasi impossibile, perché il tempo non è molto. Incredibile per chi, fino a 20 anni fa, era leader nella produzione mondiale di auto.
E cosa è successo in questi 20 anni?
Come abbiamo detto anche in altre occasioni, in primis l’Europa ha delocalizzato molte attività produttive. A dire il vero, questo lo hanno fatto tutti. Però, a differenza nostra, gli altri hanno visto crescere le produzioni che hanno mantenuto in patria, soprattutto in innovazione e in tecnologia. Questo, in particolare, si è verificato in Giappone e negli USA. Nel Vecchio continente, invece, non solo siamo rimasti fermi sul piano dello sviluppo di prodotto, ma la grande piattaforma europea – Germania, Francia e Italia – ha delocalizzato attività produttive e tecnologia senza tener conto della prossimità reciproca. Ovvero: tedeschi, francesi e italiani hanno pensato ognuno al proprio interesse e non hanno ragionato in ottica continentale. Il risultato è che, con la crisi del mercato globale, tutte le economie avanzate – USA, Cina, UK, Giappone, UE – hanno iniziato a ragionare in termini di autonomia industriale ed energetica. E in Europa sono emerse tutte le debolezze figlie di una stagione per molti versi schizofrenica.
Pare che attorno all’auto si stia giocando una sorta di sfida anche geopolitica, è così?
Il comparto dell’auto è sempre stato fondamentale per i governi nazionali, sia per la quota di pil corrispondente sia per i livelli di occupazione impiegata. Negli anni della globalizzazione, naturalmente, qualcosa è cambiato. Quel grande storico dell’industria che è stato Giuseppe Berta ce lo ha raccontato molto bene, in particolare nel suo libro Detroit (Il Mulino 2019). Negli ultimi 10 anni, tuttavia, il processo si è invertito: l’industria ha iniziato a rilocalizzarsi in modo importante e le grandi potenze hanno promosso molte azioni e interventi per riportare in patria le attività produttive precedentemente delocalizzate. Questo perché, come dicevo prima, tutte le economie avanzate hanno oggi l’obiettivo dell’autonomia industriale. Ma la sfida dell’auto è anche legata al fatto che si tratta di un prodotto sempre più tecnologico e digitalizzato. E quindi in grado di intercettare dati e di utilizzarli a favore dei paesi di provenienza. Questa è la ragione per cui gli USA hanno introdotto misure protezionistiche pesantissime contro i veicoli provenienti dalla Cina.
A proposito di Cina, in questi giorni si è saputo che nel 2024 la produzione di auto elettriche ha superato quella di auto col motore a combustione interna. Come dice qualcuno, Pechino ha già vinto?
Come lei dice, in questi giorni si è proprio saputo che in Cina le immatricolazioni di veicoli elettrici hanno superato quelle di veicoli tradizionali con grande anticipo sugli obiettivi politici. Tuttavia, non credo proprio che la Cina abbia vinto la vera competizione che l’industria mondiale dell’auto sta vivendo. Tra non molto sarà evidente che l’elettrico sarà una delle tecnologie del futuro ma non l’unica: nel giro di qualche anno, emergeranno altre tecnologie e, a quel punto, la Cina – che ha puntato moltissimo sull’auto elettrica – potrebbe avere un contraccolpo produttivo. Dopo la bolla immobiliare, Pechino potrebbe trovarsi a fronteggiare la bolla dell’auto elettrica. L’elettrico, comunque, manterrà una sua quota di mercato. Ma non c’è dubbio che questa sia una tecnologia sopravvalutata.
Considerate le misure che ha adottato, come si comporterà l’Unione europea?
Proseguirà con questa sua intransigenza nella transizione della mobilità? Credo che a Bruxelles abbiano compreso il problema, in particolare dopo la “Lettera all’Europa” di Luca de Meo che, oltre a essere ceo di Renault, è anche presidente dell’Associazione dei costruttori europei (Acea). Da gennaio la nuova Commissione troverà operatività e il primo dossier che affronterà sarà quello dell’auto. Vi è da mettere mano alle sanzioni per le case automobilistiche che non raggiungono i livelli minimi di produzione di auto elettriche e allo stop dei motori endotermici a partire dal 2035. Sono convinto che in entrambi i casi le istituzioni europee andranno incontro alle esigenze dei costruttori. Anche perché, altrimenti, ci facciamo del male tutti.
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