A dispetto dei toni trionfalistici del governo Meloni le previsioni per il prossimo anno sono di un serio peggioramento di tutti gli indici economici. C’è una crisi industriale che ha già prodotto più di 50milioni di ore di cassaintegrazione e che è destinata a franare sul sistema produttivo italiano a causa di due fattori difficilmente aggirabili: la politica dei dazi più volte annunciata da Trump (+20% sui prodotti europei) e il peso dei costi aggiuntivi dell’energia, che continuerà a gravare su tutto il sistema economico e sul settore manifatturiero in particolare. Se a questo poi si aggiunge il diktat del nuovo presidente americano di innalzare fino al 5% del PIL le spese per la difesa dei paesi europei, con effetti facilmente immaginabili sui bilanci pubblici degli Stati UE, le prospettive diventano allarmanti.
Il 2025, quindi, sarà molto probabilmente un anno di forte crisi industriale per l’Italia e per tutta l’Europa. Nella concorrenza internazionale sempre più accesa i paesi della UE sono arrivati in forte debito d’ossigeno sia rispetto alla Cina che agli USA e sono in ritardo in tutti i settori di punta del sistema produttivo, a cominciare dall’automotive. Per decenni hanno confidato nella politica dei bassi salari e nell’economia dell’export, ma oggi che esportare è diventato molto più complicato e che i mercati sono in forte contrazione non hanno molte vie d’uscita.
Draghi ha proposto da tempo la sua ricetta: rafforzare la tecnocrazia europea con il voto a maggioranza e investire in sicurezza, a cominciare dagli armamenti, e nei settori strategici. È l’idea che serva un capitalismo politico e autoritario, che superi lo stato di diritto e promuova un forte intreccio tra grande impresa e organi dello Stato, e prepari la UE ad assolvere al ruolo di grande potenza. Una dottrina che sembra ispirare tutto l’Occidente e che a Washington assume la forma del DOGE, il nuovo Dipartimento per efficienza amministrativa, guidato da Musk e creato da Trump, per mettere tutta la pubblica amministrazione sotto il controllo della grande azienda privata.
La proposta di Draghi risente della scelta di legarsi al carro dell’Occidente, ai voleri degli USA e alle dinamiche delle economie europee più forti, che è esattamente la scelta che ha condannato il nostro paese ad una condizione di subalternità. In questa proposta c’è un sottinteso che non viene esplicitato e cioè che l’unico modo per reggere la fortissima competitività internazionale è ancora una volta la compressione dei salari e la privatizzazione di tutto ciò che può essere sottratto all’economia pubblica.
Questa proposta, per ora l’unica organicamente formulata a scala continentale, che raccoglie l’approvazione non solo della Commissione Europea ma anche del governo Meloni, è destinata a scontrarsi con numerose incognite. Innanzitutto, gli effetti della nuova leadership statunitense, che lascia presagire una relazione meno amichevole che in passato con i paesi europei e il desiderio di stabilire relazioni con i singoli Stati piuttosto che con la UE. Poi l’instabilità politica che sta investendo i maggiori membri della stessa UE, Germania e Francia, che potrebbe portare ad una vera e propria crisi degli equilibri continentali. E infine, ma non certo meno importante, gli effetti della crisi sociale che le ricette di Draghi sono destinate a produrre e che potrebbe aprire a nuovi scenari.
Gli unici dati certi di questa direzione di marcia nella quale siamo incanalati sono il peggioramento delle condizioni di vita, l’aumento delle disuguaglianze sociali e la corsa al riarmo, con il coinvolgimento crescente del nostro Paese dentro gli scenari di guerra. La Meloni è appena tornata da un vertice in Lapponia nel quale ha condiviso il rinnovato interesse italiano per l’Africa e non a caso i vertici militari del nostro esercito prefigurano l’apertura di nuovi scenari di guerra proprio in quel continente.
Non c’è dubbio che la crisi nella quale stiamo precipitando non è assimilabile a quelle che abbiamo vissuto nel recente passato. È innegabile il suo carattere globale e l’intreccio molto forte con la guerra mondiale a pezzi nella quale siamo immersi già da due anni. La ristrutturazione che sta investendo il sistema produttivo continentale non è dettata quindi solo da esigenze di competizione economica ma risponde anche a calcoli geopolitici e ad una logica di guerra. La saturazione dei mercati mondiali ha acceso una competizione senza limiti su scala globale e questo sta spingendo il pianeta verso la proliferazione dei conflitti. La corsa al riarmo risponde proprio a questa dinamica: investire capitali eccedenti in un settore protetto come quello della difesa, dove le risorse sono assicurate dai bilanci statali, e sostenere il proprio esercito nello scontro globale.
In questa situazione sono in movimento altri due fattori: la repressione del dissenso e il rafforzamento della propaganda patriottica, indispensabili entrambi a garantire una compattezza del fronte interno, mentre ci si prepara a sempre nuove “avventure” per garantire gli interessi delle grandi imprese italiane ed europee. Mentre sul primo fronte operano le nuove leggi repressive come il ddl 1660, la messa sotto controllo della magistratura, i progetti di nuove riforme costituzionali, l’idea ricorrente di rendere ancora più restrittiva la legge sugli scioperi, il secondo fronte, quello della propaganda, spazia a tutto campo e investe il mondo della cultura, della scuola, dello spettacolo e delle libertà private. Un brutto vento di restaurazione culturale soffia forte nel nostro paese e mostra il suo vero volto nel sostegno che il governo Meloni continua a dare a Netanyahu.
C’è una via d’uscita da questo futuro sempre più nero? E che ruolo può giocare la nostra organizzazione sindacale per invertire la rotta?
La via d’uscita è un cambio di prospettiva, puntare sul mercato interno e il rilancio dei consumi, la reindustrializzazione del paese finalizzata però non all’export né tantomeno alla guerra ma alla crescita del benessere della nostra popolazione. Noi non dobbiamo conquistare i mercati ma dare una risposta alle tante difficoltà del nostro paese, dalla prevenzione dei disastri naturali alla sanità pubblica, dalla valorizzazione del nostro paesaggio e delle tante risorse storiche e culturali all’ammodernamento del sistema dei trasporti ferroviari che in alcune regioni quasi non esiste, dal rilancio dell’edilizia popolare alla messa in sicurezza di tanta parte del nostro sistema immobiliare pubblico. E aprirci allo scambio economico con tutti i paesi che sono disposti a farlo su un piano di parità, guardando innanzitutto a sud e alle sponde del Mediterraneo
Ma il primo punto di questo programma, che oggi non ha interlocutori in Parlamento, è la battaglia vitale per far alzare i salari. Senza una forte ripresa delle retribuzioni, delle pensioni e degli stessi ammortizzatori sociali, che sono diventati ormai per tantissimi l’unica fonte di sopravvivenza, non c’è verso di rilanciare consumi e mercato interni e innescare così un cambio di marcia.
Proprio sul salario, quindi, si gioca la partita cruciale del 2025. Vale per i lavoratori pubblici, dove nelle Funzioni centrali si è già consumato uno strappo molto pesante della Cisl e del sindacalismo autonomo che hanno deciso di firmare al ribasso in solitaria. Vale per i lavoratori del trasporto pubblico locale, che hanno recentemente scioperato in massa e si sono visti beffare da una pre-intesa sul contratto che vale 122 euro a scadenza. E vale per il settore delle ferrovie dove si preparano a promuovere altra flessibilità in cambio di paghe in discesa.
La partita del salario investe in realtà tutte le categorie. Dai settori sottoposti ad una pesante ristrutturazione, che sono in particolari quelli operai, a tutte le categorie povere dei servizi, che sono quelle che in questi anni hanno perso di più in termini di potere d’acquisto, non potendo nemmeno usufruire della contrattazione di secondo livello. I padroni trascurano di raccontare i favolosi guadagni di questi anni, la loro unica preoccupazione è che i margini di profitto sembrano destinati a contrarsi nei prossimi anni. E corrono ai ripari adottando la strategia di sempre, far pagare a noi, a chi lavora, il costo di questa ennesima crisi. Questo spiega i contratti al ribasso, l’aumento dei carichi di lavoro e della flessibilità oraria, l’indisponibilità ad affrontare in modo serio la questione della sicurezza sul lavoro, l’inserimento di nuova tecnologia al solo scopo di risparmiare lavoro piuttosto che di favorire una forte e generalizzata riduzione degli orari.
Un filo logico lega la questione del salario alla possibilità di cambiare l’indirizzo che ha preso il Paese. Innanzitutto, è questione generale, riguarda tutti i lavoratori ed ha quindi la potenzialità di essere un fattore che accomuna. Parla di una questione molto concreta, il diritto a non vedersi sottrarre altre risorse da parte di chi in questi anni si è arricchito e lo ha fatto aumentando il tasso di sfruttamento. Propone di investire sul benessere interno e la cura del territorio piuttosto che in armamenti e conquista di mercati esteri. E allude quindi all’unica via d’uscita dalla crisi che stiamo vivendo che non sia l’incubo di uno scenario di guerra.
Questa è la sfida che abbiamo davanti nel prossimo anno e per la quale vale la pena investire tutte le nostre forze.
È l’augurio che facciamo a tutte le compagne e i compagni, gli amici e le amiche, i fratelli e le sorelle dell’Unione Sindacale di Base.
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