C. Pasini | L’impatto del c.d. pacchetto sicurezza sulle persone straniere in Italia e sul fenomeno dell’immigrazione | Sistema Penale

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Ancora a proposito del d.d.l. A.S. 1236

1. Il testo del c.d. pacchetto sicurezza[1] è attualmente in discussione al Senato e proprio in queste settimane le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia in sede referente, terminate le audizioni, stanno procedendo alla valutazione dei numerosi emendamenti proposti al testo approvato alla Camera lo scorso 18 settembre. Si tratta di un disegno di legge caratterizzato da una spiccata eterogeneità degli interventi, alcuni dal chiaro valore simbolico, e il cui contenuto merita senza dubbio alcune riflessioni[2]. Il presente contributo ha l’obiettivo di analizzare alcune delle norme del d.d.l. che intervengono a vario titolo sul fenomeno dell’immigrazione in senso lato o che hanno come destinatari, più o meno esplicitamente, le persone straniere in Italia. In particolare, prenderemo in considerazione: l’introduzione di una nuova norma incriminatrice all’interno del TU Immigrazione volta a punire gli episodi di rivolta in luoghi di accoglienza o trattenimento per migranti; una proposta di modifica della disciplina del rinvio dell’esecuzione della pena (che, pur se dettata in termini generali, è retta dalla dichiarata volontà di colpire proprio una specifica categoria di persone, ossia le donne di etnia rom); una norma che vieta l’acquisto di una scheda SIM in assenza di regolare permesso di soggiorno per i cittadini di Paesi terzi; e infine di una norma che incide sull’attività della Guardia di Finanza nell’ambito del contrasto al fenomeno dell’immigrazione irregolare.[3]

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2. L’introduzione del reato di rivolta in strutture di accoglienza e trattenimento per migranti. La novità che desta maggiori dubbi e preoccupazioni è rappresentata dall’introduzione, mediante modifica dell’art. 14 TU Immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286), di una nuova fattispecie incriminatrice volta a punire gli episodi di rivolta all’interno dei luoghi di accoglienza e trattenimento per migranti[4] (si noti che il d.d.l. prevede altresì l’introduzione di una fattispecie gemella, l’art. 415 bis c.p., che punisce gli episodi di rivolta all’interno degli istituti penitenziari[5]).

Occorre innanzitutto soffermarsi sui luoghi di accoglienza e trattenimento per migranti all’interno dei quali può essere contestato il reato. In particolare, la norma rimanda ai Centri di Permanenza per il Rimpatrio, c.d. CPR (disciplinati dallo stesso art. 14 TU Immigrazione), ai punti di crisi per l’identificazione, c.d. hotspot (di cui all’art. 10 ter TU Immigrazione), ai centri governativi di prima accoglienza (di cui all’art. 9 del d.lgs. 18 agosto 2015 n. 142), ai centri di accoglienza straordinaria, c.d. CAS (di cui all’art. 11 del d.lgs. 18 agosto 2015 n. 142) e infine alle strutture afferenti al Sistema di accoglienza e integrazione, c.d. SAI (di cui all’art. 1 sexies del d.l. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla l. 28 febbraio 1990, n. 39).

Dunque, già ad una prima lettura appare evidente come la norma richiami tutte le diverse strutture che i migranti si trovano ad “attraversare” durante il loro percorso in Italia, partendo dai c.d. hotspot volti all’identificazione in cui vengono collocati appena giunti sul territorio nazionale per concludere con i CPR, strutture dedicate al trattenimento amministrativo, all’interno dei quali i migranti sono di fatto reclusi in attesa di essere espulsi. Tuttavia, la norma non si riferisce esclusivamente a questi luoghi – di cui da tempo vengono evidenziate le criticità[6] – ma il disegno di legge estende l’applicabilità della fattispecie a tutte le strutture dedicate all’accoglienza delle persone migranti, prima nei CAS (destinati ai richiedenti protezione internazionale) e poi nei SAI (destinati ai titolari di una forma di protezione internazionale): si tratta dunque, in entrambi i casi, di persone regolari sul territorio italiano, in alcuni casi addirittura titolari dello status di rifugiato, beneficiari delle misure di accoglienza legate alla richiesta di protezione internazionale.

Con riferimento alla condotta, la norma prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni per chi, all’interno di uno di questi luoghi, partecipa a una rivolta – la pena è della reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni per chi promuove, organizza, o dirige la rivolta – mediante “atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi da tre o più persone riunite”.

Sul punto, può essere osservato che il testo attualmente in discussione al Senato presenta una differenza rispetto alla formulazione proposta in origine all’esame della Camera: infatti, la prima versione del testo individuava le condotte tipiche in “atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero […] tentativi di evasione”, ricalcando precisamente la formulazione dell’art. 41 ord. penit., norma che legittima l’impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti proprio per far fronte a tali condotte, potenzialmente pericolose. Già con riferimento a detta norma non erano mancate osservazioni critiche, in quanto la formulazione – alquanto vaga – non appare in grado di costituire un necessario argine all’impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti,[7] omettendo altresì di specificare come si debba trattare, con riferimento alla mancata esecuzione degli ordini, quantomeno di ordini legittimamente impartiti. La nuova formulazione oggi in esame al Senato – fatta eccezione per l’eliminazione del tentativo di evasione dalle condotte tipiche – lascia tuttavia intatta la portata innovativa della norma, che risiede proprio nella rilevanza penale della resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti: infatti se gli episodi di violenza o minaccia, al di là dello specifico contesto, sono già penalmente rilevanti ad altro titolo (configurabili, ad esempio, come danneggiamento, lesioni personali, minaccia, resistenza a pubblico ufficiale), la novità risiede certamente nella scelta di incriminazione di condotte di c.d. “resistenza passiva”, sino ad oggi escluse dall’area del penalmente rilevante[8]. Probabilmente nel tentativo di esplicitare con più precisione quali condotte riconducibili alla nozione di “resistenza” siano da considerarsi vietate, la nuova formulazione attualmente in esame al Senato, al secondo periodo, precisa che “costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. Tuttavia, la terminologia utilizzata, alquanto vaga, non sembra in grado di delimitare con precisione i confini delle condotte penalmente rilevanti: è ben comprensibile come un generico riferimento al “numero di persone coinvolte”, al “contesto” in cui operano i pubblici ufficiali e agli “atti necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza” non faccia altro che aumentare l’indeterminatezza della fattispecie, ben potendo, qualsiasi forma di disobbedienza a un qualunque ordine impartito, ricadere in questa descrizione (si pensi, ad esempio, alle più comuni forme di protesta pacifica, come il rifiuto del cibo). Pertanto, proprio la rilevanza penale di forme di resistenza passiva suscita rilevanti dubbi in punto di compatibilità con il dettato costituzionale, oltre che in relazione al principio di precisione e dunque di legalità (per la formulazione, come già detto, assai vaga, inidonea a delimitare i confini del penalmente rilevante), anche in punto di offensività della condotta (che non sembra connotata nemmeno da quel minimo di contenuto lesivo necessario ai fini di un’incriminazione) e di ragionevolezza e proporzionalità della norma (ponendosi come limitazione a una, seppur già compressa, libertà di espressione e tenuto altresì conto del severo trattamento sanzionatorio previsto).

E tali considerazioni non possono che aggravarsi nell’osservare la scelta dei contesti all’interno dei quali si mira a introdurre le nuove fattispecie incriminatrici. Infatti, i luoghi di accoglienza e trattenimento per migranti, così come gli istituti penitenziari, sono luoghi spesso affetti da gravi carenze strutturali e, per quanto concerne i CPR, anche da numerose criticità in punto di garanzie accordate a soggetti privati della libertà personale, in ordine ai quali sarebbe forse opportuno pensare a differenti tipologie di intervento. Ed è proprio in questi contesti che punire la semplice resistenza passiva rischia di trasformarsi in una gravissima limitazione dei diritti degli individui: si tratta infatti di situazioni in cui, spesso, una forma di protesta (pacifica) è l’unico strumento di espressione a disposizione, per manifestare un disagio e tentare di comunicare le difficoltà che gli stessi luoghi generano in chi vi è recluso; soprattutto con riferimento a quei luoghi in cui la detenzione è affidata a gestioni spesso inadeguate e dove è assente qualsiasi tipo di controllo giurisdizionale sulla violazione dei diritti fondamentali.[9]

Inoltre, la circostanza che siano menzionati, tra i luoghi in cui può consumarsi il reato, non solo luoghi privativi della libertà personale quali i CPR, ma anche strutture dedicate all’accoglienza dei soggetti afferenti al circuito della protezione internazionale, desta ancor più perplessità. Infatti, se deve negarsi con forza l’equiparazione tra migranti trattenuti in un CPR poiché irregolari sul territorio italiano e soggetti detenuti in istituti penitenziari perché autori di un reato, si comprende ancor meno l’estensione dell’applicabilità della norma a soggetti non solo regolari sul territorio italiano ma altresì titolari della massima forma di protezione internazionale. Tale considerazione suggerisce come la l’intenzione del legislatore risieda, probabilmente, nella volontà di punire più che una condotta, un certo tipo di autore, in questo caso la persona migrante (indipendentemente dalla sua regolarità sul territorio o dal suo status), e ciò non fa altro che veicolare nella collettività l’idea di una sovrapposizione tra la figura del migrante e quella dell’autore di un reato.

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3. La modifica della disciplina del rinvio facoltativo o obbligatorio dell’esecuzione nei confronti di donne incinte o madri di cui agli artt. 146 e 147 c.p. Altra norma che desta non pochi dubbi all’interno del nuovo disegno di legge è quella che incide sulla disciplina del rinvio obbligatorio e facoltativo dell’esecuzione della pena di cui agli artt. 146 e 147 c.p. con riferimento ad alcune situazioni[10]. Nello specifico, per la donna incinta o madre di prole di età inferiore a un anno, se fino a oggi operava il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena ex art. 146 c.p., per effetto della nuova disciplina opererà un mero rinvio facoltativo ex art. 147 c.p., ulteriormente modificato mediante l’aggiunta della precisazione che il giudice dovrà escludere il rinvio nel caso in cui dallo stesso derivi una “situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti. Dunque, la situazione della donna incinta o madre di prole di età inferiore a un anno di età è equiparata a quella prevista oggi per le madri con figli di età compresa tra 1 e 3 anni, con l’unica differenza che nel primo caso la detenzione deve in ogni caso avvenire presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri (ICAM), mentre nel secondo caso questa è una mera possibilità, potendo la pena detentiva trovare esecuzione anche presso le c.d. sezioni-nido degli istituti penitenziari ordinari.   

Come è intuibile, la norma appare discutibile per una serie di considerazioni, sia con riferimento al contenuto sia con riferimento alla motivazione sottesa alla sua introduzione, che renderà chiara la scelta dell’inserimento di questa proposta di modifica all’interno del presente contributo. Innanzitutto, come è stato da più parti rilevato, si tratta di una norma che difficilmente si concilia con la tutela dell’interesse superiore del minore, assicurata a livello costituzionale in primo luogo dall’art. 31, comma 2 Cost. e altresì oggetto di obblighi internazionali vincolanti per il nostro Paese (ad esempio, la Convenzione di New York del 1989[11] e la Carta dei diritti fondamentali dell’UE[12]). Infatti, c’è il forte rischio che la donna si trovi a condurre una gravidanza in carcere in assenza di assistenza medica adeguata e in secondo luogo risulta evidente il grave pregiudizio di cui rischia di essere vittima il bambino che può trovarsi a trascorrere i primissimi anni della sua vita recluso, con evidenti conseguenze sul suo sviluppo psicofisico. In verità, il “grave pregiudizio alla crescita del minore” viene preso in considerazione dal legislatore, ma solo come nuova ipotesi – mediante modifica del comma 3 dell’art. 147 c.p. – di revoca del provvedimento di rinvio dell’esecuzione (oltre alle altre ipotesi quali, ad esempio, la decadenza della responsabilità genitoriale e la morte del figlio), nel caso in cui la madre “durante il periodo di differimento, [ponga] in essere comportamenti che causano un grave pregiudizio alla crescita del minore”. Al contrario, la tutela della crescita del minore risulta senza dubbio sacrificata – mediante l’eliminazione delle ipotesi di rinvio obbligatorio – anche nel caso di bambini neonati, con il rischio che questi si trovino a trascorrere i primi anni della propria vita in carcere.

In secondo luogo – se le conseguenze sul piano pratico rischiano di essere drammatiche per tutte le detenute madri e ancor di più per i loro bambini – lascia senza dubbio perplessi la ragione politica (e di propaganda) sottesa a questo intervento. Infatti, come è emerso anche in sede di discussione parlamentare, la norma intende colpire la presunta strumentalizzazione della gravidanza come espediente per evitare il carcere, che sarebbe pratica comune soprattutto per le donne straniere, in particolare di etnia rom. Infatti, lo stesso Dossier del Servizio Studi del Senato tradisce la volontà sottesa all’intervento poiché, nell’illustrare la proposta di modifica degli artt. 146 e 147 c.p., riporta una tabella recante i dati delle detenute madri “divise per nazionalità”, pur non ravvisandosi alcuna motivazione – ad eccezione della finalità politica appena esposta – per mettere in evidenza questo dato in relazione alla norma in commento. La tabella riportata nel Dossier evidenzia una netta maggioranza di detenute madri straniere rispetto a quelle di nazionalità italiana, 14 le prime (con 15 figli al seguito) e 7 le seconde (con 9 figli al seguito)[13]. Tuttavia, tale dato non sembra avere alcuna rilevanza nella valutazione della proposta di modifica poiché – oltre a non fornire sufficienti elementi (circa l’entità della pena irrogata, l’età dei figli o altro) per una valutazione chiara della situazione – non permette di risalire a quali siano i numeri delle donne straniere che hanno beneficiato del rinvio (obbligatorio o facoltativo) dell’esecuzione della pena, non potendosi certo ipotizzare, in assenza di riscontri, una analoga proporzione con i dati forniti. Inoltre, il dato riportato rischia di essere influenzato, come accade per larga parte della popolazione straniera in carcere, dalla difficoltà per questi soggetti di accedere alla detenzione domiciliare – prevista in questo caso dall’art. 47 ter, commi 1, lett. a) e 1 ter ord. penit. – in assenza di regolare residenza o di domicilio stabile[14]. Proprio con riferimento all’istituto della detenzione domiciliare previsto dall’art. 47 ter ord. penit., il cui ambito di applicazione si sovrappone alle ipotesi di rinvio obbligatorio e facoltativo dell’esecuzione della pena e riveste nell’ordinamento grande rilevanza pratica, il Dossier ha espresso la necessità di coordinamento con la nuova proposta di modifica: infatti non è chiaro se in forza dell’obbligo di esecuzione della pena presso un ICAM per le donne incinte o madri di figli di età inferiore ad 1 anno, di cui al nuovo quinto comma dell’art. 147 c.p. sia preclusa per il giudice, nel caso in cui non disponga il rinvio (solo facoltativo), la possibilità di applicare la misura della detenzione domiciliare.

Si aggiunga che la Corte costituzionale era già stata chiamata a pronunciarsi sul rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena di cui all’art. 146 c.p. e sulla possibilità per il giudice di bilanciare la tutela della donna incinta e del minore appena nato con esigenze di prevenzione generale e difesa sociale. In detta sede, la Corte aveva giudicato la scelta del legislatore non irragionevole, in quanto durante la gravidanza e durante il primo anno del bambino, la protezione del rapporto madre-figlio in un ambiente idoneo si ritiene debba prevalere sull’interesse statuale all’esecuzione immediata della pena. Infatti, la Corte ritiene che il pericolo di una strumentalizzazione della maternità sia “adeguatamente bilanciato dalla circostanza che il secondo comma dello stesso art. 146 c.p. prevede espressamente, tra le condizioni ostative alla concessione del differimento dell’esecuzione della pena e tra quelle di revoca del beneficio, la dichiarazione di decadenza della madre dalla potestà sul figlio (che, ai sensi dell’art. 330 cod. civ., può essere pronunciata quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti con grave pregiudizio del figlio) nonché l’abbandono o l’affidamento del figlio ad altri”[15].

Dunque, la necessaria salvaguardia del superiore interesse del minore e il pregiudizio che ne deriva nel caso di carcerazione dei bambini sono insegnamenti da considerarsi recepiti[16] e indicazioni nel senso di favorire le alternative alla detenzione nei confronti delle detenute madri provengono da numerosi organismi sovranazionali (si vedano ad esempio le c.d. “Regole di Bangkok” delle Nazioni Unite del 2010[17], le Regole penitenziarie europee del 2006[18], il rapporto sulla detezione femminile del CPT[19]); e in questo senso sembra andare anche la recente esperienza italiana, in cui la detenzione domiciliare ex artt. 47 ter e 47 quinquies ord. penit.[20] ha preso sempre più spazio, provocando un significativo calo dei bambini in carcere[21]. Dunque, questa proposta si pone in netta controtendenza rispetto al quadro sino ad ora delineato, segnando, per ragioni di propaganda, un grave arretramento sulla tutela di situazioni di vulnerabilità che meriterebbero interventi di segno opposto[22].

Da ultimo, è appena il caso di sottolineare come siano presenti solo quattro ICAM[23] su tutto il territorio italiano, un numero certamente insufficiente per far fronte all’aumento del numero delle detenute madri cui tende la nuova norma, con l’inevitabile conseguenza che la detenzione, che per le donne incinte e madri con bambini fino a un anno di età deve obbligatoriamente trovare esecuzione presso un ICAM, non potrà eseguirsi – considerazione che svela il significato simbolico della norma – e, nel resto dei casi di mancato differimento, esauriti i pochi posti disponibili negli ICAM, l’unica alternativa sarà un aumento dei bambini reclusi nelle c.d. sezioni-nido degli istituti penitenziari ordinari, di cui spesso sono state evidenziate le criticità[24].

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4. La modifica in tema di tutela delle funzioni istituzionali del Corpo della Guardia di Finanza svolte in mare. Altra disposizione che merita una menzione nel corso di questa analisi è quella che, pur se non esplicitamente, mira a incidere anche sul contrasto al fenomeno dell’immigrazione irregolare e in particolare sulle attività di soccorso in mare.

In particolare, il disegno di legge incide sugli artt. 5 e 6 della legge 13 dicembre 1956, n. 1409,[25] che assicurano rilevanza penale alle condotte del capitano della nave nazionale che, rispettivamente, non obbedisca all’intimazione di fermo di una unità del naviglio della Guardia di Finanza o commetta atti di resistenza o di violenza contro la stessa (richiamando il trattamento sanzionatorio, rispettivamente, degli artt. 1099 e 1100 cod. nav.). Ad oggi le due disposizioni richiamate sono applicabili solo nel caso in cui la Guardia di Finanza sia impegnata in operazioni di vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando di tabacchi; tuttavia, con la novella legislativa si mira a estendere l’applicabilità delle sanzioni penali a condotte poste in essere – anche dal comandante di nave straniera – nei confronti delle unità del naviglio citate impiegate genericamente “nell’esercizio delle funzioni istituzionali a esse attribuite dalla normativa vigente”. Ed è proprio il Dossier del Servizio Studi del Senato (e prima quello della Camera, identico sul punto) che richiama esplicitamente le funzioni attribuite dalla legge italiana alla Guarda di Finanza, tra cui la “sicurezza del mare in via esclusiva – in relazione ai compiti di polizia, [per garantire] il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica in tale ambiente geografico – ivi compresa l’attività di prevenzione e contrasto dell’immigrazione irregolare”.

Trattasi dunque di una norma che – almeno sul piano simbolico – ricalca la tendenza, sempre più evidente, di utilizzo del diritto penale come strumento per contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare, probabilmente con la finalità di disincentivare, vista l’applicabilità di pene molto elevate (l’art. 1100 cod. nav. prevede la reclusione da tre a dieci anni), le operazioni di soccorso in mare. In realtà, oltre che sul piano teorico, non è da escludere una possibile incidenza anche sul piano pratico: infatti, per citare un recente caso di cui si è molto discusso, Carola Rackete, la comandante della nave Sea Watch 3, dell’omonima ONG, in relazione ai noti fatti risalenti all’estate del 2019, era stata inizialmente iscritta nel registro degli indagati per l’ipotesi di reato di cui all’art. 1100 cod. nav. (che punisce ipotesi di resistenza o violenza contro nave da guerra). Il procedimento è stato successivamente archiviato – in relazioni agli altri capi di imputazione, argomentando in ordine alla sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. – ma già in sede di convalida dell’arresto e applicazione della misura cautelare, il GIP di Agrigento[26] – con ordinanza poi confermata dalla Corte di Cassazione[27] – aveva affermato l’insussistenza del reato ex art. 1100 cod. nav. per difetto della qualifica di “nave da guerra” in capo alla motovedetta della Guardia di Finanza. Tale requisito risultava infatti necessario ai fini dell’integrazione dell’art. 1100 cod. nav., non potendosi applicare analogicamente, così come rilevato dalla Corte di Cassazione in tale circostanza, l’art. 6 della l. n. 1409/1956 con riguardo a tipologie di attività non attinenti alla repressione del contrabbando di tabacchi, pur ricomprese nei compiti di “vigilanza marittima”. Al contrario, se venisse approvato il d.d.l. in commento nella sua attuale versione, nulla osterebbe, in casi analoghi, alla contestazione dei reati di cui agli artt. 5 e 6 della l. n. 1409/1956 nel caso di condotte poste in essere nei confronti delle navi della Guarda di Finanza impegnata in attività di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare.

 

5. La modifica in tema di conclusione di contratti di telefonia mobile da parte di cittadini di Stati non appartenenti all’UE. Infine, appare interessante sottolineare un’ulteriore proposta di modifica che incide sull’art. 98-undetricies del codice delle comunicazioni elettroniche (d.lgs. n. 259/2003)[28], in tema di identificazione degli utenti al momento di attivazione di una scheda SIM. In particolare, ai fini della conclusione di un contratto con oggetto un servizio per la telefonia mobile, viene inserito, oltre al generale obbligo di identificazione mediante documento di identità, un ulteriore requisito per i cittadini di Stati non appartenenti all’UE, cioè la titolarità di un documento di soggiorno e dunque la regolarità sul territorio nazionale. Inoltre, il disegno di legge introduce la sanzione amministrativa accessoria – in aggiunta alla sanzione pecuniaria già prevista – della chiusura dell’esercizio o dell’attività per un periodo da cinque a trenta giorni per quelle imprese autorizzate alla vendita di schede SIM che non ottemperino agli obblighi di identificazione del cliente[29], ivi compreso l’obbligo di acquisizione del titolo di soggiorno nel caso di cittadini di Paesi terzi. Pertanto, viene precluso ai cittadini stranieri non in possesso di regolare permesso di soggiorno l’acquisto di una scheda SIM, con la conseguenza di una forte limitazione della possibilità per questi soggetti di comunicare e dunque un evidente peggioramento, in forza di una non meglio specificata esigenza di sicurezza, della condizione di esclusione e marginalità sociale in cui già versano, spesso, i cittadini stranieri irregolari.

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6. Da questa pur breve analisi di alcune delle modifiche proposte dal c.d. pacchetto sicurezza si può tentare di trarre qualche prima conclusione. Innanzitutto, si conferma nuovamente la tendenza sempre più spiccata del legislatore a un utilizzo del diritto penale per far fronte a fenomeni di supposto allarme sociale, nonostante la funzione di extrema ratio che il nostro ordinamento assegna all’intervento del diritto penale e, in particolare, alla sanzione penale della privazione della libertà personale. Inoltre, le norme esaminate – così come molte altre, attinenti ad altri ambiti, presenti all’interno del d.d.l. – risultano caratterizzate da una forte componente simbolica, quasi tralasciando una verifica circa l’effettiva applicabilità del dato normativo (anche in punto di compatibilità con il dettato costituzionale), focalizzandosi invece sull’efficacia mediatica e propagandistica dell’intervento, in ottica di rassicurazione della popolazione da (vere o presunte) forme di pericolo.

Infine, ancora una volta si conferma la tendenza del legislatore ad includere il fenomeno dell’immigrazione nell’ambito degli interventi a tutela della sicurezza, contribuendo a una stigmatizzazione della figura del cittadino straniero (a prescindere dalla regolarità sul territorio) come soggetto pericoloso. Appare chiara, infatti, l’intenzione di incidere su fasce della popolazione già fortemente penalizzate, spesso relegate a contesti di marginalità sociale, con interventi che non possono far altro che aggravare le forti problematiche in punto di tutela dei diritti fondamentali (dalla libertà di espressione a quella di comunicazione) a prescindere dallo Stato di provenienza.

 

 

 

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[1] D.d.l. A.S. 1236 recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, di iniziativa di Ministero dell’Interno, Ministero della Difesa e Ministero della Giustizia.

[2] Per un commento sulla proposta legislativa cfr., tra gli altri, a M. Pelissero, A proposito del disegno di legge in materia di sicurezza pubblica: i profili penalistici, in questa Rivista, 27 maggio 2024; R. Cornelli, Il Ddl Sicurezza alla prova della ricerca criminologica: prime annotazioni critiche, in questa Rivista, 5/2024, pp. 113 ss.; M. Ruotolo, Su alcune criticità costituzionali del c.d. pacchetto sicurezza (A.S. 1236), in questa Rivista, 9 ottobre 2024; M. Palma, Audizione presso le Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato sul ddl n. 1236 recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, in Quest. giust., 31 ottobre 2024; G.L. Gatta, Il pacchetto sicurezza e gli insegnamenti, dimenticati, di Cesare Beccaria, in questa Rivista, 7 novembre 2024.

[3] Pur non approfondendo il tema in questa sede, si ritiene doveroso dar conto di una ulteriore modifica proposta dal d.d.l. inerente al tema dell’immigrazione in senso lato: si tratta dell’art. 9 A.S. 1236, che estende da tre a dieci anni il termine entro il quale può intervenire la revoca della cittadinanza ai sensi dell’art. 10 bis l. 5 febbraio 1992, n. 91, per coloro i quali l’abbiamo acquisita dopo un lungo periodo di residenza in Italia o per matrimonio e siano stati successivamente condannati per alcuni reati gravi in materia di terrorismo. Per un commento su tale disciplina – frutto di un precedente c.d. pacchetto sicurezza (d.l. 113/2018) e che aveva già destato non pochi dubbi, certamente amplificati da questa recente proposta di modifica – si rinvia a E. Cavasino, Ridisegnare il confine tra “noi” e “loro”: interrogativi sulla revoca della cittadinanza, in Dir. imm. e citt., 1/2019; L. Viola, La revoca della cittadinanza dopo il decreto sicurezza, in Dir. imm. e citt., 1/2021.

[4] Si tratta della modifica prevista dall’art. 27 del d.d.l. attualmente in esame al Senato, che interviene sull’art. 14 TU Immigrazione mediante l’aggiunta del comma 7.1, recante la nuova fattispecie incriminatrice.

[5] Cfr. art. 26 A.S. 1236. le due norme, identiche sotto il profilo della condotta e delle circostanze aggravanti previste, differiscono solo in relazione ai luoghi ove può consumarsi il reato e presentano lievi differenze in punto di trattamento sanzionatorio (l’art. 415 bis prevede infatti pene più severe sia per la semplice partecipazione alla rivolta, reclusione da uno a cinque anni, sia per chi promuove, organizza o dirige la rivolta, reclusione da due a otto anni). Ulteriore differenza di cui si ritiene utile dare conto è che, delle due fattispecie, solo l’art. 415 bis c.p. viene inserito, dall’art. 34 del d.d.l., nell’elenco dei reati ostativi alla concessione di benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione in carcere di cui all’art. 4 bis, comma 1 ter, ord. penit.

[6] Non ci si sofferma in questa sede sui numerosi profili di illegittimità del trattenimento amministrativo in CPR, per cui si rimanda, per tutti, a L. Masera, La nozione costituzionale di materia penale, Giappichelli, 2018, pp. 222 ss.; G. Campesi, La detenzione amministrativa degli stranieri, Carocci editore, 2013; E. Valentini, Il proteiforme apparato coercitivo allestito per lo straniero, in F. Curi, F Martelloni, A Sbraccia, E Valentini, I migranti sui sentieri del diritto, II ed., Giappichelli, 2021; A. Della Bella, Trattenimento, in questa Rivista., 12 giugno 2023.

Con riferimento alle criticità dei c.d. hotspot si rinvia, tra gli altri, a L. Masera, Il “caso Lampedusa”: una violazione sistemica del diritto alla libertà personale, in Diritti umani e diritti internazionali, 1/2014, pp. 83 ss.; L. Masera, I centri di detenzione amministrativa cambiano nome ed aumentano di numero, e gli hotspot rimangono privi di base legale: le sconfortanti novità del Decreto Minniti, in Dir. pen. cont., 3/2017, pp. 278 ss.; M. Benvenuti, Gli hotspot come chimera. Una prima fenomenologia dei punti di crisi alla luce del diritto costituzionale, in Dir. imm. e citt., 2/2018; F. Cancellaro, Dagli hotspot ai “porti chiusi”: quali rimedi per la libertà “sequestrata” alla frontiera?, in questa Rivista, 28 settembre 2020; G. Felici, M. Gancitano, La detenzione dei migranti negli hotspots italiani: novità normative e persistenti violazioni della libertà personale, in questa Rivista, 1/2022, pp. 45 ss.

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[7] Cfr. M. G. Coppetta, Commento all’art. 41, in V. Grevi, F. Della Casa, G. Giostra (a cura di), Ordinamento penitenziario commentato, VI ed., Cedam, 2019, p. 530.

[8] Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere escluso dal novero di comportamenti punibili ai sensi dell’art. 337 c.p. (Resistenza a un pubblico ufficiale) ogni condotta riconducibile a una mera disobbedienza o resistenza passiva, ritenendo penalmente rilevante solo un comportamento attivo, che integri una violenza o una minaccia. Per tutti, con ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, cfr. R. Pasella, G. Mentasti, sub Art. 337 c.p., in E. Dolcini, G. L. Gatta (a cura di), Codice penale commentato, V ed., Ipsoa, 2021, pp. 1245 ss.

[9] Sul punto si ritiene interessante richiamare una decisione del Tribunale di Crotone che aveva ritenuto sussistenti i presupposti della legittima difesa a fronte di una rivolta violenta posta in essere in un C.I.E. (oggi CPR), evidenziando la necessità di un intervento strutturale nei confronti di un sistema di accoglienza e trattenimento dei migranti carente delle condizioni minime di tutela, cfr. sul punto L. Masera, Rivolte degli stranieri detenuti nei C.I.E.: una forma di legittima difesa contro la violazione dei diritti fondamentali degli internati? Nota a Trib. Crotone, sent. 12 dicembre 2012, Giud. D’Ambrosio, in Dir. pen. cont., 7 gennaio 2013.

[10] Cfr. art. 15 A.S. 1236.

[11] Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York nel 1989.

[12] C.d. Carta di Nizza, in particolare l’art. 24, comma 2: “In tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente”.

[13] Tali dati sono aggiornati al 31 luglio 2024; nel Dossier del Servizio Studi della Camera, invece, i dati erano aggiornati al 31 gennaio 2024 e a quella data le detenute madri di nazionalità italiana erano 9, mentre 11 erano quelle straniere, quindi, anche se con un minor scarto, la maggioranza delle detenute madri era già rappresentata da quelle non italiane.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

[14] Cfr. J. Long, Essere madre dietro le sbarre, in G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, Ledizioni, 2018, p. 121, che rimarca la necessità di un aumento delle strutture (c.d. case famiglia protette, previste dalla l. 21 aprile 2011, n. 62) volte a garantire una esecuzione della pena extramuraria anche in assenza dei mezzi di sussistenza adeguati e di un luogo idoneo alla detenzione domiciliare; in questo senso si veda altresì A. Tollis, Le case famiglia protette e il “caso milanese”, in G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, Ledizioni, 2018, pp. 329 ss.; che fornisce un quadro più chiaro dell’istituto, confrontando le uniche due esperienze (quella milanese e quella romana) di tali strutture.

[15] Cfr. Corte cost., ord. 8 maggio 2009, n. 145 (negli stessi termini Corte Cost., ord. 19 ottobre 2009, n. 260); la Corte si spinge addirittura oltre, affermando che “non è la pena differita in quanto tale a determinare una situazione di pericolo, ma, semmai, la carenza di adeguati strumenti preventivi volti ad impedire che la condannata, posta in libertà, commetta nuovi reati; tuttavia, se a colmare una simile carenza può provvedere soltanto il legislatore, deve escludersi che la eventuale lacunosità dei presidi di sicurezza possa costituire, in sé e per sé, ragione sufficiente per incrinare, sull’opposto versante, la tutela dei valori primari che la norma impugnata ha inteso salvaguardare”.

[16] Per tutti, con ampi riferimenti bibliografici, cfr. G. Mantovani, La marginalizzazione del carcere in funzione di tutela della relazione madre-figlio, in G. Mantovani (a cura di), Donne ristrette, Ledizioni, 2018, pp. 196 ss.

[17] Risoluzione n. 65/229 adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 21 dicembre 2010, in particolare la Regola 64 prevede che le pene non privative della libertà siano privilegiate per le donne incinte e con bambini, dovendosi primariamente valutare l’interesse superiore del minore.

[18] Raccomandazione R(2006)2 adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’11 gennaio 2011 e aggiornata l’1 luglio 2020.

[19] Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), Factsheet on women in prison, 2018, par. 4.

[21] Secondo i dati pubblicate dal DAP, tra il 1993 e il 2019 il numero di minori di 3 anni al seguito delle madri in carcere si aggirava, ogni anno, su cifre contenute tra i 40 e i 70 bambini (con occasionali picchi più elevati, arrivando anche a 85 bambini reclusi). Dal 2019 è possibile notare un calo progressivo del numero di minori in carcere ì e negli ultimi anni il dato si aggira introno ai 20 bambini presenti (sempre tra ICAM e c.d. sezioni-nido presso gli istituti penitenziari ordinari), con il dato più basso (17 bambini) registrato alla fine del 2022 (al 31 ottobre 2024 sono 18).

[22] Si segnala altresì che la Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti – ossia il Protocollo d’intesa firmato per la prima volta nel 2014 tra Ministero della Giustizia, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e l’Associazione “Bambinisenzasbarre Onlus” e poi rinnovato più volte, l’ultima nel 2021, con validità di quattro anni – si apre con la seguente dichiarazione di intenti: “In attesa di raggiungere l’obiettivo di evitare la permanenza dei bambini in carcere, ipotesi questa da considerarsi come extrema ratio, […]” (art. 1); per poi porre una serie di strumenti volti a tutelare i figli dei genitori detenuti, dentro e fuori dal carcere, dove questa seconda opzione dovrebbe, appunto, considerarsi residuale.

[23] Sono quattro le strutture attualmente adibite a ICAM (Milano “San Vittore”, Venezia “Giudecca”, Torino “Lorusso e Cutugno” e Lauro), mentre l’ICAM di Cagliari non è mai entrato in funzione.

[24] Cfr. Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Relazione al Parlamento 2019, pp. 66 ss.

[25] Cfr. art. 29 A.S. 1236.

[26] Cfr. Trib. Agrigento, ord. 2 luglio 2019, in Dir. pen. cont., 3 luglio 2019, con nota di S. Zirulia, L’ordinanza del GIP di Agrigento sul caso Sea Watch (Carola Rackete).

[28] Cfr. art. 32 A.S. 1236, introdotto in sede referente alla Camera.

[29] Cfr. art. 30, comma 19 bis del codice delle comunicazioni elettroniche, introdotto dallo stesso art. 32 del d.d.l.



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