l’economia europea rischia il tracollo?

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Matthew Karnitschnig, in uno degli ultimi pezzi pubblicati per Politico,  parla della imminente apocalisse dell’economia europea. Il vecchio continente, tra green deal e il pericolo di un ritorno all’Austerity, rischia di andare incontro all’abisso, direzione che potrebbe subire un’accelerazione per via delle probabili scelte politiche della nuova Amministrazione Trump, che si insedierà il prossimo 20 gennaio.  

Come ammonisce il corrispondente del quotidiano statunitense, i “bei tempi” per l’Europa finiranno presto.

E non solo per effetto dei nuovi dazi annunciati dal futuro inquilino della Casa Bianca, ma anche a causa del maggior contributo chiesto agli “alleati” per la difesa (tradotto: aumento della spesa militare), pena la perdita della protezione di Washington, cui fa da pendant la paventata, ma assai improbabile, uscita degli statunitensi dalla NATO.

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Qui non si tratta di mettere in pericolo l’equilibrio dei conti, ma lo stesso benessere dei cittadini degli stati membri della UE (e, in buona parte, anche del Patto Atlantico).

Sotto il primo profilo (i dazi), occorre considerare che circa un quinto dell’export europeo ha come destinazione gli Stati Uniti, che ne fanno, con oltre cinquecento miliardi di euro ogni anno, il maggiore mercato per l’industria del vecchio continente. Se si pensa che la strategia suggerita dalla Commissione UE sarebbe quella di aumentare gli acquisti dagli USA, a cominciare dal gas liquefatto, è agevole comprendere lo stato delle cose, secondo quanto ripreso nell’analisi curata da Clemens Fuest, presidente dell’IFO Institute di Monaco, un importante think tank del vecchio continente.

Le possibili decisioni di Trump – a meno di una capacità negoziale molto efficace degli europei, circa la quale è lecito dubitare – non sarebbero, del resto, un’assoluta novità. Nel corso del suo primo mandato, eravamo nel 2018, il tycoon impose una serie di dazi su acciaio e alluminio europei, che sospesi da Biden, potrebbero tornare in auge, scatenando un aumento dell’inflazione.

Di fronte a una riduzione delle entrate derivanti dall’export e a un possibile aumento delle spese per la difesa, le strade percorribili per i governi del vecchio continente sarebbero solo due: aumentare l’imposizione fiscale o tagliare la spesa in altri settori, a cominciare dal Welfare, scelte che, nell’uno come nell’altro caso, implicherebbero nuovi sacrifici e minori servizi, specie per i ceti meno abbienti (un tempo qualcuno coniò per queste ipotesi l’espressione “macelleria sociale”).

Al di là della debolezza politica delle classi dirigenti, che rischia di dare nuova linfa a forze che Politico definisce “estremiste o populiste”, occorre interrogarsi sulle cause di una simile débâcle.

Di certo non ne esiste una soltanto. Politico si concentra sul fatto che da troppo tempo il vecchio continente non sappia e non voglia investire nell’innovazione. In qualche modo, lo ha ammesso lo stesso Mario Draghi, ex capo del governo italiano e già al vertice di Bankitalia e BCE, che nel recente rapporto sulla competitività ha dovuto riconoscere che solo quattro delle prime cinquanta aziende mondiali operanti nel settore della tecnologia sono europee. Il che non è accettabile, a meno di voler trasformare i nostri paesi in musei a cielo aperto, destinati a campare solo di turismo: una prospettiva che forse a qualcuno potrebbe apparire lusinghiera, ma insostenibile per una serie di ragioni.

A Draghi sembra fare eco un altro pezzo da novanta delle istituzioni comunitarie, la presidente della Banca centrale europea (BCE), Christine Lagarde, che in un intervento al Collège des Bernardins di Parigi, lo scorso novembre, ha detto a chiare lettere che non potremmo essere più “… in grado di generare la ricchezza di cui avremo bisogno per soddisfare le nostre crescenti esigenze di spesa per garantire la nostra sicurezza, combattere il cambiamento climatico e proteggere l’ambiente”. Tradotto dal politichese, significa che non ci sono più le risorse per conservare il nostro tenore di vita, quale che sia l’opinione che si possa avere sulle questioni ambientali.

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Se alle nostre latitudini non sono pochi coloro che intravvedono nel ritorno di Trump alla Casa Bianca un presagio di tempi migliori, sempre sperando che questi auspici si rivelino corretti, e noi non ne siamo per nulla convinti, si potrebbe provare a rovesciare il discorso, per affermare che se il magnate non dovrebbe essere visto come la salvezza, allo stesso tempo non bisognerebbe guardare a lui come all’origine di tutti i mali del vecchio continente.

Agli europei non sembra fare difetto solo la capacità (e la lungimiranza) di investire in innovazione, ma anche la produttività. Gli abitanti del vecchio continente vengono accusati di lavorare meno dei colleghi d’oltre oceano, mentre la penuria di investimenti in ricerca e sviluppo – che non hanno mai superato il 2 per cento del PIL, e che spesso non sono neanche convogliati nella giusta direzione – fa il resto. Ultimamente, ad onor del vero, sembra profilarsi qualche segnale in controtendenza.

Il divario, oltretutto, non esiste solo con gli Stati Uniti, ma anche con l’altro grande competitor, la Cina, così che l’impegno di Lisbona del 2000 – fare dell’economia europea la più competitiva del mondo – sembra consegnato alla storia dei buoni propositi, rimasti solo sulla carta.

Se esiste un settore che ha visto nella mancanza di innovazione il suo fulcro, questo è stato proprio quello trainante dell’economia tedesca, vale a dire quello dell’automobile, comprovato dal sostanziale fallimento – certificato dal crollo della produzione e delle vendite – del settore elettrico, nel quale le politiche di maggiori investimenti perseguite da Tesla e dai cinesi hanno finito per mettere in crisi la (quasi) ex locomotiva europea. E qui Trump c’entra poco e nulla.

I vincoli imposti dalle direttive sul green hanno contribuito, e non poco, a penalizzare il settore, nella concorrenza con produttori che non soggiacciono a queste regole, mentre la crisi produttiva e l’invecchiamento demografico rischiano di mettere a rischio l’occupazione, che difficilmente potrà essere rimpiazzata dai migranti, che spesso non posseggono le necessarie competenze e abilità richieste dal mercato (e dalle nuove tecnologie). Non è certo un caso il susseguirsi di notizie circa chiusure di stabilimenti e licenziamenti, che stanno coinvolgendo alcuni dei più grossi nomi dell’industria germanica: Volkswagen, Ford e ThyssenKrupp, che hanno annunciato decine di migliaia di licenziamenti. L’aumento dei costi energetici, causato anche (ma non solo) dalla politica sanzionatoria verso il principale fornitore a basso costo hanno determinato il peggioramento del quadro.

Tornando a Karnitschnig, ad avviso dell’analista le prospettive per il futuro sono tutt’altro che incoraggianti: col predominio di giganti come la General motors e “… del resto della Silicon Valley nel mondo della tecnologia, è difficile immaginare come la tecnologia europea possa mai competere allo stesso livello, e tanto meno recuperare terreno”.

Una critica, neanche troppo velata, starebbe nell’incapacità di raccogliere capitale di rischio, causata da quella che Politico definisce la tendenza degli europei a preferire i classici conti correnti, in luogo dell’investimento del risparmio nelle attività produttive. Il problema è che se molte di queste ultime già oggi navigano in cattive acque, non si capisce bene per quale ragione i risparmiatori dovrebbero essere indotti a modificare le proprie scelte.

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E se è vero, sempre stando alla testata a stelle e strisce, che gli europei continuano a beneficiare del welfare state più generoso al mondo – quasi che fosse un delitto farlo… – è pur vero che le minori risorse disponibili – associate ai maggiori investimenti nella difesa – potrebbero presto obbligarli a un brusco risveglio.

In questo senso, almeno su una cosa Karnitschnig ha probabilmente (e purtroppo) ragione: “… quando gli europei si renderanno conto della nuova realtà, potrebbe essere troppo tardi per fare qualcosa.”

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