Il 26enne Luigi Mangione.
Non sappiamo se in Italia potrebbe esserci un Luigi Mangione. Le strutture sanitarie ormai sono quasi il 50 per cento private, un aumento progressivo da decenni, con picchi in assistenza residenziale, semiresidenziale, riabilitativa (tra il 70 e l’85 per cento). Solo le prime dieci aziende del settore arrivano a fatturare 5 miliardi l’anno, hanno centinaia di strutture su tutto il territorio. Il settore delle assicurazioni sanitarie è in crescita netta, più 30 per cento negli ultimi due anni. Ma il servizio sanitario nazionale, e la cultura della sanità pubblica, il diritto alla sanità pubblica restano ancora un riferimento per molte persone.
Ognuno ha la sua storia di malasanità, di umiliazione del proprio corpo o del corpo delle persone che ama, per un’operazione, una degenza, una visita. Ognuno di noi ha da raccontare una storia di ingiustizia assoluta per cui è dovuto ricorrere alla sanità privata per salvare la vita, una capacità basilare, la dignità, e spendere i risparmi, i soldi del tfr, fare debiti con banche, amici per poterselo permettere. Ma nonostante la rabbia, nonostante l’indignazione, queste milioni di storie non sono mai sfociate in una violenza del tipo di quella messa in atto da Mangione, ben presente nella cultura americana, molto meno qui a casa nostra.
Going postal, è intitolato un libro di Mark Ames, che raccontava i dipendenti degli uffici postali che andavano a sparare ai loro ex colleghi e capi, out of the blue, quando le poste negli Stati Uniti vennero privatizzate e partirono i licenziamenti di massa. Social killer l’aveva tradotto Isbn in italiano. L’Unabomber statunitense era un assassino solitario che rivendicava una matrice politica e che scrisse un manifesto libertarian; quello italiano uno sciroccato che nessuno ha mai capito perché ha fatto degli attentati e che nessuno ha mai arrestato.
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In Italia i killer politici solitari sono più rari, non sono praticamente mai esistiti; per i paragoni con Mangione occorre andare a Gaetano Bresci o Luigi Lucheni, anarchici di più di cento anni fa, anche loro in qualche modo non dei solitari esasperati. Negli ultimi anni gli attentati solitari sono stati più di matrice fascista, Gianluca Casseri o Luigi Traini, omicidi e tentati omicidi “sociali” diretti contro persone di colore identificate come invasori e immigrati, vittime scelte a caso per la strada.
La ragione è che esistono i collettivi, i movimenti, una storia di corpi intermedi democratici, e soprattutto esiste un senso etico del pubblico, ancora persino della sanità pubblica anche quando la merda sembra grandinare da ogni parte: accanto alla storia di umiliazione e ingiustizia c’è la storia di come un’equipe di medici del servizio pubblico è riuscita a seguirci bene durante tutta una malattia, terapie per malattie croniche svolte in contesti pieni di cura nonostante tutto, medici di base che si prodigano per mantenere rapporti umani decenti. La solidarietà ancora tiene come valore, anche se in modo episodico e non sistemico, anche se affidata alla coscienza individuale e sempre meno incardinata nelle pratiche pubbliche.
Dall’altra parte però questo permanente ma residuale senso di dignità sociale e di valore della sanità pubblica non porta a battaglie politiche collettive. La sanità pubblica non interessa praticamente a nessuno politicamente. Il Partito democratico l’ha scoperta da poco, e la segretaria Elly Schlein ha deciso di farne il primo punto del suo programma. Ma negli ultimi anni le privatizzazioni nelle regioni sono l’esito di scelte fatte anche e spesso da vertici del Pd e dei partiti progressisti al governo. Questo gli viene rinfacciato ora, in molti casi non a torto.
Forum della salute, Medicina democratica, i sindacati dei medici o degli infermieri, sono organizzazioni che hanno pochissimo ascolto presso i media. E l’idea stessa che ci possa essere un’alleanza tra malati, degenti e operatori sanitari, sembra una stramberia; eppure negli anni settanta esistevano assemblee simili nelle Usl come si chiamavano allora. Chi tra le persone che ha vissuto, vive un’ingiustizia della sanità si metterebbe a fare un’assemblea insieme alle altre persone vittime delle stesse condizioni?
Questa è la crisi della politica italiana, come campione e in purezza. E anche la fascinazione transatlantica per Mangione ha dentro un po’ questo.
Però, della rabbia contro le ingiustizie che ne facciamo?
Quando si parla di crisi della politica degli ultimi anni in Italia viene spesso in mente il lavoro enorme che ha fatto Michela Murgia. Il suo impegno politico è stato emblematico, anche nelle sue scelte personali. Quando decise di mettere in pausa il suo impegno intellettuale e si candidò al consiglio regionale con la lista autonomista Sardegna Possibile, riuscì a magnetizzare un sacco delle forze sparse sul territorio. Nessun intellettuale ha provato negli ultimi anni un percorso simile politico. Prese il 10 e passa per cento, ma non entrò nel consiglio regionale, per una cattiva legge elettorale. Durante la campagna elettorale le fu diagnosticato un tumore: lei decise di tenerlo nascosto e nonostante il parere dei medici andò avanti nella campagna. Per una ragione precisa: la sua lotta personale era una lotta collettiva, era convinta, in quel caso per la sanità pubblica regionale. Il suo tumore le faceva toccare dal vivo, diceva, il senso di ingiustizia che molte persone sperimentavano ogni giorno proprio tra ospedali, ricoveri, attese.
Il fallimento di quell’esperienza politica ha fatto cambiare strategia politica a Michela Murgia, che tornò a fare l’intellettuale pubblica. Scrivere romanzi, racconti, articoli, lo dichiarava spesso, non era un fine in sé, era solo la scusa per fare quello che le interessava: politica, dando voce in modo percussivo alle battaglie che erano personali e insieme pubbliche. Il racconto della nuova malattia, questa volta terminale, l’ultima intervista a Aldo Cazzullo, sono l’esempio più lucido di un metodo, al tempo stesso cattolico, femminista, suo. Per Michela Murgia, l’abbiamo visto, il personale era politico in molti sensi possibili.
L’11 agosto di due anni fa c’è stato il funerale di Michela Murgia. Ed è stato un momento doloroso e straziante perché perdere Michela Murgia sembrava impossibile, e anche perché perdere Michela Murgia ha significato anche rendersi conto di un’altra perdita, quella della possibilità di tenere insieme un modello popolare di critica intellettuale e politica collettiva.
Questa perdita si è vista il giorno stesso del funerale. Devastate dal caldo, alle tre del pomeriggio, a Piazza del Popolo, migliaia di persone che non erano potute entrare in chiesa, erano lì a cercare di ascoltare le cose che venivano dette in chiesa, di partecipare in qualche modo al lutto, coprendo il sole che sbatteva sul telefonino con l’ombra della mano.
Perché nessuno, un giornale, un partito, aveva organizzato almeno un funerale per bene?
Michela Murgia ha lasciato molte, moltissime, cose, ma la sua morte ha lasciato, dal momento stesso del funerale, la consapevolezza, ancora più acuta di quella che avevamo prima, di tutto ciò che manca: organizzazione, spazi permanenti per il confronto, formalizzati, strutturati. Gli spazi sociali vengono sgomberati, le riviste chiudono, i gruppi si sfilacciano.
Che sia Gaza, la violenza sistemica di genere, il fascismo che torna, l’espulsione dei poveri dallo spazio urbano, o ancora la sanità allo sfascio, qualunque urgenza politica, il bisogno di efficacia di un dibattito pubblico e di una mobilitazione pubblica, si scontra con quest’assenza o spesso questa pericolosa debolezza, dei luoghi strutturati, di organizzazione. Un’assenza che un’intellettuale come Murgia ha provato a aggirare, con la sua capacità di esposizione permanente e la sua intelligenza politica fuori scala. Alle volte ci è anche riuscita, a volte no; poi è stato sempre più difficile, oggi è evidentemente quasi infattibile.
Il lavoro politico delle assemblee femministe, del movimento per la Palestina, delle molte lotte che definiamo convergenti, dei media militanti è stato, ed è, gigantesco, enorme e generoso, ma i tanti collettivi che si sono creati in questi anni, rischiano in continuazione di essere opacizzati da un bisogno di consumo della politica che è più forte del bisogno di darsi, nel frattempo, costantemente, nutrimento reciproco.
Fare politica per le altre persone, fare politica con le altre persone, per migliorare la vita alle altre persone, vuol dire soprattutto vivere, animare, qualificare, estendere il conflitto, ma educarsi al conflitto si può fare prima in quelle comunità politiche così generose ma spesso anche fragili, e poi fuori? Questo è un impegno che va spesso oltre le nostre forze, proprio perché quelle comunità politiche sono sempre più infragilite, e non possono essere sostituite né ricostruite tanto in fretta.
Fare politica da soli sembra un controsenso, ma in questi anni per molte, per molti è accaduto così. Influencer da una parte, casi paradigmatici dall’altra, vittime lasciate sole dall’altra ancora. C’è chi anche da solo ha fatto battaglie incredibili in tempi disastrosi per la politica come quelli che stiamo vivendo.
A Natale di due anni fa i casi politici non erano Leonardo Caffo o Tony Effe, Plpl o il concertone di Capodanno, ma quello di Alfredo Cospito, in sciopero della fame per più di cento giorni contro l’ergastolo e il 41bis. Un anarchico individualista, una posizione minoritaria anche nella galassia anarchica: da solo per mesi e mesi aveva portato avanti con il suo corpo un paio di battaglie difficilissime e sacrosante, per tutti, in un contesto terribilmente ostile. E alla fine non era andata male.
Eppure da quell’esempio, così esposto, quasi da martire, in pochi hanno tratto delle chiavi per fare politica.
Mangione, Murgia, Cospito sono stati tre figure molto pubbliche, che hanno deciso di prendersi la responsabilità da soli di lotte che dovrebbero essere collettive
Se devo citare un libro politico da tenere con sé e regalare questo Natale prenderei il libro di Giovanna Ferrara, che è il racconto dei suoi ultimi anni di militanza, mentre era malata, non nonostante fosse malata. Giovanna Ferrara, giornalista soprattutto de il manifesto, morta l’anno scorso il 4 dicembre 2023. La sua cerimonia funebre è stata straziante. Si è tenuta all’Esc_Atelier di San Lorenzo, a Roma. Anche lì, veniva da dire che sarebbe dovuto essere una specie di funerale di Stato. La sensazione dolorosissima che si ha nei funerali di persone come Michela e Giovanna morti negli ultimi anni è che ci sarebbe dovuto essere un funerale di stato, semplicemente per il fatto che avevano difeso il collettivo, una comunità piena, inclusiva, spesso in pochi, anche da soli, spesso e nonostante tutto; quasi sarebbe detto, si direbbe, lo Stato.
Anche lei ha raccontato in modo esposto e letteralmente clinico la sua malattia, parlando soprattutto di sanità pubblica. La lotta per la giustizia nella sanità pubblica è stato il suo orizzonte politico e morale che ha accompagnato l’ingiustizia – quella sì davvero assoluta – per la sofferenza e la devastazione, la fine del corpo. Comincia a raccontare la sua malattia nel tempo rimosso che è stata la pandemia. Quei malati, quei morti, e soprattutto quelle cure impossibili a causa di una sanità che è stata smantellata, distrutta per decenni.
La rimozione del covid – non abbiamo visto i corpi intubati, e nemmeno le flebo, non abbiamo avuto funerali, abbiamo reso pornografica la malattia collettiva e la morte collettiva in reparti di ospedali sigillati all’umanità – ha slantentizzato quell’indifferenza se non quella pulsione di morte che oggi ci consente di essere anestetizzati alla guerra in Ucraina, al genocidio di Gaza, ai massacri del Mediterraneo, a quelli delle guerre che ci sono e che verranno. Possiamo non occuparci della malattia e della morte, perché non la vediamo. Quindi possiamo non occuparci della sanità pubblica.
«Dobbiamo occuparci molto più di sanità. Non puoi capire com’è la situazione reale. Io d’ora in poi non voglio fare altro». Mentre moriva, Giovanna Ferrara ha scritto questo libro meraviglioso, L’innocenza dei dinosauri, pubblicato ora da Fuorilinea, che è paradossalmente una specie di romanzo di formazione politica, per chi vuole dedicare un tempo alla militanza. Dal suo letto di degente, Ferrara non perde un minuto del suo tempo, anche se obnubilato dalle anestesie e dai farmaci, per dire che c’è la possibilità di fare politica, ma solo se ci prendiamo cura della malattia e della morte e dei nostri corpi in balia del mondo, uno per l’altro, a partire proprio dall’abisso della solitudine dei letti d’ospedale, della paura di restare soli.
“Quanta felicità in questa strana storia. Quanto amore. Proprio là dove nessuno pensa possano abitare. Quanta politica”, a un certo punto dice Ferrara. Ed è il solo modo per fare politica, da soli, senza sentirsi soli, senza esserlo.
Christian Raimo è docente di filosofia e storia in un liceo romano, scrittore, collaboratore de La Stampa, Domani, Internazionale, la Repubblica e consulente scientifico di Treccani. Docente di scrittura narrativa, editing, scrittura di non-fiction in master e corsi universitari o organizzati da case editrici e agenzie letterarie. Autore di programmi TV e radio. È stato assessore alla cultura del municipio III di Roma. Il suo ultimo libro è “Scuola e Resistenza” (Altreconomia, 2024).
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