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Nei giorni scorsi ha fatto molto discutere la proposta del presidente eletto degli Usa Donald Trump di negoziare con la Danimarca l’acquisto della Groenlandia. La manovra era già stata proposta da The Donald nel 2019, ai tempi del suo primo mandato, ed è stata rilanciata in vista dell’insediamento in occasione della nomina da parte di Trump dell’ex top manager di PayPal Ken Howery, il suo ex ambasciatore in Svezia, come nuovo ambasciatore in Danimarca.
La mossa di Trump può sembrare una stravaganza, un guizzo da miliardario eccentrico più che da uomo di Stato. Ma al netto della boutade sull’acquisto, reiterata anche nella comunicazione della nomina di Howery (” gli Stati Uniti d’America ritengono che la proprietà e il controllo della Groenlandia siano una necessità assoluta”) le parole di Trump mostrano la lettura, con le lenti del tycoon, di una priorità geostrategica chiara per gli Usa, ovvero blindare la sicurezza dell’Artico dalle influenze esterne, russe e cinesi in testa.
La Groenlandia, isola più grande del mondo, è oggi un Paese associato al Regno di Danimarca e in virtù di ciò garantito dalla sfera securitaria della Nato. La sua proiezione verso l’Artico rende la Groenlandia fondamentale per monitorare i traffici di navi e assetti militari nel Nord Atlantico e attraverso quelle rotte polari in cui gli Usa sono insidiati nella primazia da Pechino e Mosca. In Groenlandia opera dal 1967 la base aerospaziale di Pituffik, la più nordica gestita dagli Usa, dove il 12th Space Warning Squadron oggi parte della Space Force ha il compito di analizzare potenziali minacce satellitari e balistiche.
Inoltre, il governo locale di Nuuk è attenzionato dagli Usa per la consolidata presenza di investimenti cinesi nel settore minerario che ha portato 2 miliardi di dollari di fondi di Pechino a arrivare nel Paese tra il 2012 e il 2017, costruendo la base per un capitale accumulato capace di generare direttamente o indirettamente l’11,6% del Pil. L’incubo strategico degli Usa è che in futuro una Groenlandia autonomista sostenuta dalla Cina possa chieder l’indipendenza da Copenaghen e schierarsi a fianco della Repubblica Popolare, interdicendo agli States la canonica influenza sull’Artico e posizionandosi sulla rotta più breve per collegare Europa e Nord America. In sostanza, si teme una faglia nordica della “dottrina Monroe”, con cui gli Usa rivendicano la loro volontà di non ricevere alcuna minaccia diretta nel continente americano di cui la Groenlandia è una propaggine.
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Non che a Nuuk il governo del primo ministro Mute Egede sia rimasto immobile in tal senso. La Groenlandia non ha una politica di difesa e sicurezza autonoma, l’ha delegata totalmente a Copenaghen che con la premier socialdemocratica Mette Frederiksen dal 2019 a oggi è stata sempre più saldamente allineata agli Usa e alla Nato. A inizio anno, in ogni caso, l’esecutivo groenlandese ha pubblicato una nuova strategia riguardante la sua visione degli affari geopolitici e securitari e il ruolo dell’enorme e spopolata isola in un mondo competitivo. Come riporta l’Arctic Institute, “la strategia suggerisce chiaramente che la Groenlandia dovrebbe allinearsi all’Occidente, il che è una dichiarazione inequivocabile piuttosto nuova che ha guadagnato terreno soprattutto dopo le azioni russe in Ucraina nel 2022”. Allo stesso tempo, tuttavia, “un ideale pacifista e idee di distensione sono evidenziati in tutta la strategia, dove spesso è visto come parte di una tradizione culturale di ricerca costante della pace” della maggioranza inuit del Paese.
Sarà abbastanza per accontentare Trump e farlo desistere? In Groenlandia sperano di sì, a Copenaghen il governo centrale ribadisce che il territorio non si può vendere e a Washington si guarda con attenzione al dossier. Oltre la geopolitica, c’è anche da riflettere sull’immenso tesoro di materie prime, dal petrolio alle terre rare, che la Groenlandia custodisce e su cui molto spesso le compagnie occidentali hanno messo gli occhi con bramosia. Anche questo rientra nel calcolo di Trump? Possibile. Ma la grande stagione degli acquisti di territori degli Usa sembra esser difficilmente riaggornabile.
Nel 1803 e nel 1819, rispettivamente dalla Francia di Napoleone Bonaparte e dal Regno di Spagna, gli Usa acquisirono i territori della Louisiana e della Florida: nel 1867 fu la volta dell’Alaska, comprata dall’Impero Russo e nel 1903 furono acquisite da Panama, Stato di cui Washington aveva sostenuto l’indipendenza, e da Cuba le aree dell’attuale canale e della base di Guantanamo. Infine, nel 1917, fu proprio la Danimarca a cedere agli Usa le Isole Vergini nel Mar dei Caraibi. In ogni caso quelle espansioni coincisero con un aumento della proiezione geostrategica degli Usa. Ma oggi quel mondo non esiste più, e gli Usa devono pensare ad altri strumenti per esercitare la loro leadership. In relazione alla Groenlandia, magari pensando che Washington rimane comunque la potenza di riferimento in termini di proiezione militare, economica, commerciale, tecnologica, scientifica, di rilevamento aereo e oceanografico nell’isola più grande del mondo. E questo basta a farla rientrare, senza ombra di dubbio, nella sua zona d’influenza.
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