Il corpo di Gisèle – Vita.it

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La storia di Gisèle Pelicot sta facendo il giro del mondo. Tutti ammirano il coraggio di questa donna, che ha voluto esporsi in prima persona, rendendo pubblico il processo contro l’ex marito e le oltre 50 persone che l’avevano stuprata in stato di incoscienza. È una presa di posizione per dire che non è la vittima che deve vergognarsi della violenza subita, in una società in cui «le donne vengono educate ancora col senso di colpa», come dice la sociolinguista Vera Gheno.

Gisèle Pelicot ha deciso di rendere pubblico il processo. Cosa pensa del coraggio di questa donna?

Bisogna ricordare che c’è la possibilità per le donne che denunciano violenze e stupri di avere un processo completamente in anonimato, per evitare la pressione sociale legata agli stigmi. Già di per sé questo è un elemento che va sottolineato. In questi casi è molto comune la cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, il fatto di colpevolizzare la vittima rispetto a quello che è successo, perché era vestita in maniera provocante o non aveva un comportamento consono, per esempio. Gisèle Pelicot – che, ricordiamolo, porta il cognome del marito – ha scelto invece di rendere pubblica la sua vicenda: questo è dovuto probabilmente alla volontà di fare della sua storia un caso di rilevanza sociale per costringerci tutti e tutte a riflettere su alcune cose che oggi sono essenziali e che speso no sono abbastanza discusse.

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Quali?

La prima è che lo stupratore non è un mostro che vive fuori dalla società civile, ma è parte della società civile. È letteralmente l’uomo qualunque. È vero che non tutti gli uomini sono stupratori, ma è vero che qualunque uomo potrebbe essere uno stupratore. Penso che la condanna che hanno ricevuto il marito, Dominique Pelicot, e gli altri 50 uomini che hanno fatto parte di questo gioco perverso sia la dimostrazione di come la violenza sulle donne non sia una questione di etnia o di cultura di appartenenza – o di essere mostri senza cervello – ma sia assolutamente trasversale e possa accadere ovunque. La scelta di Gisèle Pelicot, poi, va nella direzione di far capire quanto sia sbagliato vergognarsi quando si è vittima di un crimine di questo tipo. Purtroppo moltissime donne non denunciano o aspettano a denunciare, a volte anche troppo, con conseguenze fatali, perché hanno paura della vergogna che subiranno nel caso una vicenda del genere venisse fuori. Non dico in maniera pubblica, sui giornali, ma anche nel quartiere, in casa o in famiglia.

Vera Gheno, foto di Andrea Roccabella

E questo cosa comporta?

Quello che viene definito “under recording”: c’è un registro dei crimini di genere con una stima che tende sicuramente verso il basso, perché molte donne, appunto, non denunciano. Tra l’altro, è molto più difficile farlo quando le violenze avvengono in famiglia, perché spesso la risposta che si riceve in caserma o in questura è «vabbè signora, avete litigato, torni a casa e fate pace».

La violenza è anche più difficile da riconoscere quando viene agita da una persona di famiglia.

È assolutamente più difficile da riconoscere, quindi in parte capisco anche le remore ad andare a denunciare il proprio marito. Purtroppo, però, come dimostra il numero dei femminicidi, le violenze di questo tipo si consumano molto spesso proprio in famiglia. E spesso ci sono anche molte documentazioni dell’indifferenza del resto dei familiari, che fa finta di non vedere o sottostima la gravità di certi atti e quindi finisce di nuovo per colpevolizzare la donna. Mi viene in mente Olivia Denaro di Viola Ardone: la storia della donna che per prima denuncia una violenza, per sottrarsi al matrimonio riparatore. Tutte le persone del paesello le dicevano che lei stava sbagliando, perché lui l’aveva stuprata perché l’amava, perché l’aveva provocato. In questo caso siamo nella Sicilia degli anni ‘60, ma succede ancora oggi: purtroppo lo stigma è sovente rivolto verso la donna. Ancora di più, quindi, Gisèle Pelicot è stata coraggiosa e, probabilmente, determinata a far di sé stessa un simbolo, mostrando che non c’è alcun motivo di vergognarsi. Tra l’altro, leggendo le carte del processo, ho notato qualcosa di terrificante: la strategia di difesa ricorrente è stata che quasi tutti gli imputati hanno dichiarato di non essere stati consapevoli che la donna non fosse consenziente. Alcuni dicevano di avere avuto il nulla osta del marito.

Come se la moglie fosse una proprietà di cui disporre.

Questa donna era una bambola di pezza, perché era stata ridotta in stato di incoscienza dalle droghe e loro hanno dichiarato che pensavano fingesse, che fosse un gioco. Quanto può reggere questa storia? Molti hanno citato tra le attenuanti infanzie difficili, quasi tutti hanno detto di aver subito violenze da ragazzini o di essere stati in casa famiglia. Come se questo fosse qualcosa che per forza ti rende così inumano nei confronti di una donna.

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Una difesa che non regge insomma.

Penso che, andando a scavare, la maggior parte delle persone purtroppo ha delle storie trafficanti da raccontare, perché purtroppo fino a poco fa era parte di una cultura che fino a poco tempo fa passava sotto traccia ed era comune nelle famiglie. Indubbiamente è tragico che tutte queste persone potessero testimoniare di aver subito qualcosa di brutto da ragazzini, ma l’attenuante arriva fino a un certo punto. Una persona può andare dall’analista o dallo psicologo, non pensare che sia normale essere agganciati da un uomo in chat per stuprare a ripetizione la moglie.

Gisèle Pelicot ha deciso di rendere pubblica la sua vicenda per far crescere la consapevolezza su questo tema. Un ruolo cruciale, in questo, è giocato dalla stampa. Pensa che l’informazione su questo caso sia fatta in maniera corretta dai giornalisti?

Credo che la differenza rispetto ad altre situazioni sia che Gisèle Pelicot parla di sé in prima persona e così ha imposto una narrazione anche ai mezzi di comunicazione di massa. È più difficile distorcere questa vicenda rispetto a una vicenda in cui la donna non parla per sé o perché è morta o perché non vuole. Per questo credo che il racconto stia venendo fatto in maniera esemplare: c’è lei a vigilare su quanto viene detto. È faticoso accollarsi il fatto di essere un personaggio pubblico in una situazione del genere, ribadire che non c’è nulla da vergognarsi, ma uno dei benefici della presenza pubblica è l’impossibilità di scavalcarla e creare una narrazione alternativa.

Spesso non ci si pensa, ma nei casi di violenza e femminicidio si parla quasi sempre più del carnefice che della vittima.

Sì. Anche nel caso di Giulia Cecchettin è accaduto questo. Purtroppo lei non c’è più ma il padre e la sorella – e pensiamo alla fatica che stanno facendo – hanno scelto di avere grande visibilità. Spesso vengono accusati di voler attirare l’attenzione su di sé, ma io che ho la fortuna di conoscere Gino posso dire che è la cosa più lontana dai Cecchettin che si possa immaginare. Loro stanno davvero facendo tutto per avere giustizia. Nel caso Pelicot è ancora più difficile pensare che ci possa essere stata una strumentalizzazione, perché lei parla per sé: «Questo è il mio corpo, ci sono passate più di 50 persone che io non volevo. Vi sto mostrando sul mio corpo quanto fa schifo la nostra società».

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