Il Natale di guerra degli operatori umanitari: “Difficile comunicare la realtà, ora siamo un target”. “Per le persone è insopportabile pensare ai conflitti, ma servono aiuti”

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Aumentano i conflitti nel mondo, i morti e i feriti. Aumenta la spesa degli Stati per armarsi e il numero di persone costrette a lasciare le proprie case. Diminuiscono gli aiuti umanitari, le notizie sui giornali e la capacità di raccontare fatti, sempre più strumentalizzati a livello politico. Diminuisce la speranza che il futuro possa essere diverso. Il 2024 non è solo l’ennesimo anno di guerre, ma è anche uno dei peggiori: non ce ne sono mai state così tante dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi. I report internazionali vanno tutti in un’unica direzione: mentre le crisi umanitarie in Ucraina e Gaza non vedono fine, si sono aperti nuovi fronti sanguinari. E il rischio di assuefazione, a livello mediatico, preoccupa sempre di più: se anche chi non è toccato direttamente dalle stragi non fa sentire la sua voce, sempre meno saranno le spinte politiche perché qualcosa cambi. “Quest’anno”, ha denunciato l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu Volker Türk nei giorni scorsi, “è stato segnato da un numero spaventoso di vittime, con un disprezzo totale per il diritto internazionale e la vita dei civili”. E “il costo della guerra è altissimo, la sofferenza umana incalcolabile. Gli Stati devono mettere fine a conflitti e sofferenze insensate”. Parole, di nuovo, che rischiano di finire dimenticate. A raccontarlo sono gli operatori e le operatrici umanitarie, impegnati ogni giorno in prima linea. Lo racconta Medici senza frontiere, attraverso il lavoro documentato da Maddalena Oliva su il Fatto Quotidiano e sostenuto dalla Fondazione il Fatto. Lo racconta Oxfam nella sua rubrica “Voci di Gaza” su ilfattoquotidiano.it. Lo dicono uomini e donne che, mai come in questo momento storico, portano il peso della solitudine: “Siamo diventati un target”, denunciano. Inascoltati.

I numeri – Secondo l’ultimo report del Peace Research Institute Oslo (PRIO), ci sono in corso nel mondo 59 conflitti. Il dato, dice il Global Peace Index che a giugno ne contava 56, è il più alto dalla Seconda Guerra Mondiale. A maggio scorso, ha riportato l’Onu, si è raggiunta la cifra record di 130 milioni di sfollati. Per l’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), il tasso di eventi conflittuali è cresciuto del 25% negli ultimi dodici mesi. E se guardiamo all’anno scorso, le spese in armi sono aumentate del 4,2 per cento con un trend di crescita che, sostengono gli analisti, rimarrà invariato. La stima dei decessi dell’ultimo anno a livello globale è di circa 230mila, anche se viene considerata “prudente”. “E’ dovuto”, scrivono, “in gran parte all’inizio o al riavvio di tre conflitti di grandi dimensioni in questo periodo – Ucraina, Gaza e Myanmar – insieme alle violenze in Sudan, Messico, Yemen e Paesi del Sahel. Proliferano l’esposizione dei civili alla violenza, gli incidenti e il numero di gruppi armati coinvolti”.

“Non riusciamo a comunicare la realtà” – Mentre i politici si preoccupano solo di come far arrivare più armi o come ottenere una vittoria contro il nemico, chi lavora per aiutare le popolazioni colpite non riesce a nascondere l’enorme frustrazione. “È un momento difficilissimo”, dice Bruno Neri, senior program manager di Terre des Hommes. “Direi unico. Io è dagli anni ’80 che lavoro in Medioriente e ora le organizzazioni internazionali sono finite sotto attacco. Siamo diventati dei target. Ma si dimenticano che noi rispettiamo i codici etici internazionali e facciamo parte delle comunità delle ong. Eppure per portare aiuti a Gaza servono 10mila permessi e i camion di aiuti possono restare comunque fermi per giorni”. Il primo fronte è proprio quello di Gaza: “Chiamare tutti terroristi di fronte a stragi di 40-50mila morti pesa e crea problemi anche a noi. Perché fa nascere diffidenza su quello che facciamo. Anche le testimonianze dei massacri possono essere fraintese dai media. Siamo al punto che, per noi, è diventato difficile comunicare la realtà. Non si vuole attaccare la popolazione israeliana, ma solo dire quello che succede”. Terre des Hommes lavora nel mondo per fornire assistenza, in particolare, ai minori e alle donne: a Gaza aiutano la Palestinian Medical Relief Society, in Libano portano aiuti di emergenza e continuano con le attività di educazione e sostegno psicosociale. E mai come in questo momento, ogni parola rischia di non essere abbastanza per raccontare i fatti. “Ormai si comunicano solo il numero dei morti, l’atto militare”, continua Neri. “Nulla si dice invece sulla perdita della qualità della vita che è immisurabile. Il non poter andare a scuola, non avere una casa, non potersi curare. Aver perso gli amici, i parenti. Come lo misuriamo? In Siria i bimbi in classe devono mettersi tre o quattro maglioni perché fa troppo freddo. E i bombardamenti di Israele, anche se su obiettivi militari, fanno paura. Perché la terra trema, perché si teme di essere i prossimi. In Giordania i più piccoli piangono davanti alle tv quando vedono le immagini di Gaza. Questa è la normalità”. Terre des Hommes si occupa anche di supporto psicosociale in Ucraina. “Qui stiamo lavorando per capire come affrontare il futuro. Ad esempio, chiedere di abbassare la leva a 18 anni per i ragazzi ha un impatto. Già non vedono un futuro e pensare solo che dovranno andare a combattere è pesante. Infatti sono aumentati l’uso di droga, l’alcolismo, le violenze familiari. Si parla solo dei bombardamenti, ma mai della ricaduta psicologica sulle persone. Noi lavoriamo per favorire la resilienza, il superamento delle difficoltà. Ma così è sempre più duro”. E se dovesse arrivare una pace? “Il problema è se sarà solo la pace dei potenti. Perché c’è il rischio che si crei una frattura molto forte nella società di fronte al fallimento di aver combattuto per tre anni e non essere arrivati poi a una pace giusta. Noi stiamo già pensando come aiutare le persone nelle fasi successive e una delle poche strade è quella di lavorare sulle comunità”. Nella speranza che sia sufficiente per ricominciare.

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“Se non vogliamo più vedere niente, almeno pensiamo ai bambini”Damiano Rizzi, presidente della ong Soleterre, risponde dal Beit Jala Hospital, l’unico ospedale pubblico rimasto in Palestina per la cura del cancro infantile. “Io penso”, dice, “che se non vogliamo più vedere niente, almeno dobbiamo creare uno status dei bambini. Perché devono essere protetti. Non possiamo lasciarli morire in questo modo, non sanno nemmeno perché stanno morendo”. Rizzi, psiconcologo, sta lavorando anche allo sviluppo di progetti per il sostegno psicologico: “Per dialogare con i più piccoli usiamo i disegni e quello che fanno più spesso è disegnare se stessi sdraiati. Sotto il tavolo per nascondersi, insieme ai genitori: sono tutti sempre in posizione orizzontale. Cerchiamo di aiutarli a dare un senso a tutto quello che sta accadendo, di bonificare queste immagini. Ma è difficile quando l’imprevisto è dietro l’angolo”. La difficoltà è proprio il rivendicare il diritto alla salute: “Il lavoro più grande in questa fase è quello sulla prevenzione. Convincere che i bambini malati di tumore, anche in questa fase, devono e possono essere curati. E stiamo anche cercando di fare in modo che possano fermarsi qui durante le terapie per evitare di affrontare numerosi viaggi. Da quando abbiamo iniziato”, a maggio scorso, “abbiamo già più di un bambino in remissione”. Una conquista enorme, in una situazione di conflitto. Il punto, continua Rizzi, è anche la difficoltà di un contesto dove servono continue autorizzazioni per lavorare: “I diritti umani non devono essere condizionati da niente e nessuno, altrimenti diventano concessioni”.

Soleterre lavora anche in Ucraina, dove si occupa di pazienti oncologici pediatrici da prima dell’inizio del conflitto. E non ha mai smesso. “Noi siamo presenti nell’ospedale pediatrico Okhmatdyt di Kyiv, uno di quelli bombardati a luglio scorso”, racconta. E a Leopoli, dove si occupano anche di evacuazione di pazienti. “E siamo attivi al fronte con ambulanze che distribuiscono aiuti sanitari e forniscono anche supporto psicologico. Il problema è che l’attenzione mediatica è calata, come è fisiologico, solo che, dell’attenzione di tutti ci sarebbe più bisogno ora rispetto a tre anni fa. Basti pensare che l’Ucraina era, prima del Covid, già il Paese più povero d’Europa e quello con i tassi di disturbi mentali più elevati. Dopo tre anni di bombe, la situazione è gravemente peggiorata”. Rizzi fa un appello: “Noi stiamo vivendo dentro un mondo che sempre di più adotta e adotterà l’economia di guerra e la guerra per regolare quello che la politica non riesce più a regolare. Siamo in un mondo in guerra, mai come il 2024. E l’opinione pubblica cerca di allontanarsene, non protesta perché non ci sia la guerra”. Salvo casi eccezionali, “come l’indignazione per quello che avviene a Gaza” o per “l’attacco all’ospedale ucraino con 400 bambini”. Per le persone però, “è insopportabile mettere la testa su qualcosa che è insopportabile”. E l’unica cosa che si può fare, in questo momento, “è donare alle organizzazioni internazionali che lavorano in zone di guerra. Che sempre di più devono muoversi con fondi privati. Ad esempio, in Palestina il governo italiano ha bloccato i soldi per i progetti umanitari per paura che finissero nelle mani dei terroristi. Ecco perché io credo che donare a una organizzazione umanitaria che lavora in una zona di guerra sia il gesto reale più importante che si possa fare ora”.

“Da qui non ce ne andiamo, perché è la cosa giusta da fare” Giovanni Tozzi è logista per Emergency e si trova in questo momento nell’ospedale Salam di cardiochirurgia a Khartoum, città quasi abbandonata a causa della guerra. Parla da uno dei fronti più dimenticati di tutti, quello che raramente viene citato quando si parla di conflitti. “Eppure l’ultimo report dell’International Rescue Committee, uscito pochi giorni fa, dice che questa è la più devastante crisi umanitaria dei giorni nostri” e che va avanti dallo scoppio della guerra, aprile 2023, tra le due fazioni delle forze armate sudanesi. “Parliamo di 25 milioni di persone in stato di insicurezza alimentare, di cui 14 milioni di bambini. La carestia si sta propagando sempre di più e a questo si aggiungono i rischi di diffusione delle epidemie. Le scuole sono chiuse e l’accesso all’80% degli ospedali non è possibile”. Un quadro spaventoso, ancora di più perché difficilmente viene raccontato. “Noi però”, dice Tozzi, “non ce ne andiamo. Emergency è l’unica ong presente nella Capitale. E nel nostro centro di cardiochirurgia visitiamo tra i 50 e i 70 bambini al giorno. E forniamo la terapia anticoagulante a chi ne ha bisogno: anche se molti di loro li abbiamo persi perché sono sfollati e la copertura telefonica è molto carente, noi cerchiamo comunque di contattarli. Qui abbiamo un piccolo staff internazionale e poi circa 400 locali che sono stati formati per gestire l’ospedale in autonomia”. E, vista la difficoltà di movimento, “abbiamo allestito qui gli alloggi per loro”, così che non debbano spostarsi continuamente. La città ora è “spettrale”: “Per strada si vedono solo le camionette dei militari, veicoli ribaltati. E da qui sentiamo molto bene i bombardamenti”. Ma le famiglie affrontano anche giorni di viaggio per arrivare e poter curare i propri figli. Anche perché, per molti di loro, le terapie sono “vitali e necessarie”. Le difficoltà sono soprattutto pratiche: “Manca spesso l’elettricità e abbiamo dovuto usare i nostri generatori anche per 90 giorni consecutivi. Generatori che consumano 2mila litri di carburante circa a 4 euro al litro. Per farvi capire i costi che vengono affrontati”. Emergency chiede a gran voce che ci sia un aiuto anche economico per la popolazione del Sudan e l’azione diventi prioritaria a livello internazionale. Intanto, in questi giorni lo staff internazionale non ha potuto lasciare l’ospedale di Khartoum e rientrare a casa per le feste: “C’è una sola strada che arriva qui e al momento non è sicura”. Soli, in una terra dimenticata dalla politica e dall’opinione pubblica internazionale. Cosa covince a continuare? “Sapere”, chiude Tozzi, “che questo è il nostro lavoro ed essere qui è la cosa giusta da fare”.



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